un orsomando maschio e la distruzione della stampa

Due cose, apparentemente slegate.
La prima. C’è un tipo, che si chiama Massimiliano Cordeddu e ha 32 anni, che non intende ragioni e vuole fare l’annunciatore in tv. Il Nicoletto Orsomando, per capirci.
Lo faceva per una televisione che ha chiuso, e quando s’è trovato senza lavoro ha pensato di presentare la sua candidatura alla Rai e a Mediaset per l’attualmente inesistente posizione di annunciatore maschio.

Siccome gli hanno risposto picche sia dall’una sia dall’altra parte, Cordeddu ne ha fatto la battaglia della vita, ritenendosi discriminato dal fatto che le annunciatrici – come suggerisce la desinenza del termine – sono solamente femmine. Per essere sostenuto nella lotta, dice che parlerà con la ministressa Mara Carfagna, alla quale una simile declinazione della locuzione «pari opportunità» potrebbe anche apparire seducente.

Sui giornali che ne danno notizia, il tipo è da una parte ridicolizzato – «ma dài, nel 2008 c’è un uomo che vuole diventare un orsomando» – dall’altra sostenuto nella fondatezza formale dei suoi argomenti: «Poffarre, è vero, è discriminazione».

Cordeddu, ascolta qua.
Non è che puoi decidere di fare la battaglia di principio senza aver provato a chiedere a TelePippo o TvPiazza. Non è che puoi pretendere che per il solo fatto di essere maschio, e forse discriminato, i due colossi televisivi del Paese ti organizzino un angoletto in cui accoccolarti, e se poi non lo fanno gridare alla discriminazione. E se per caso la Rai e Mediaset s’inventano davvero la funzione dell’annunciatore ma poi ti preferiscono un altro? Che so: tipo un Corona? Che fai? Cominci una lotta – esageriamo – «meritocratica»?

È come se domattina mi svegliassi e dicessi: «Gente, le direttrici femmine di quotidiani sono pochissime. Ho chiesto alla Rcs di diventare direttrice del Corriere e mi hanno riso in faccia. Questa è discriminazione, le leggi mi danno ragione, e io voglio parlare con la ministressa Carfagna perché spinga la Rcs a rimuovere questa discriminazione».
Non mi si filerebbero in tanti, vero?

(l’il)libertà di stampa

La seconda cosa. Ancora D’Avanzo (sì, lo so: che palle).
D’Avanzo analizza il presente e prevede il verosimile futuro che il Berlusconi IV ci sta preparando. Parlamento esautorato e composto da persone non elette ma sostanzialmente «nominate»; creazione fittizia di emergenze; demolizione dei contrappesi costituzionali; propaganda e populismo. E alla fine del pezzo scrive che Berlusconi «aggredisce con sistematicità le istituzioni di controllo», e da subito «la magistratura. È un’agevole previsione», dice, «credere che molto presto toccherà all’informazione».

D’Avanzo sbaglia, però; e alla grande.
All’annientamento dell’informazione manca solo il sigillo, qualche legge che formalizzi e metta per iscritto ciò che purtroppo già è stato realizzato compiutamente in questi anni, senza che la mia categoria abbia trovato la forza per attestarsi su una linea di resistenza minimale (anche perché, va pur detto, gli attacchi arrivavano da destra, da sinistra, dal centro, dal cielo, da terra e dal mare).

Quando, ma è solo un esempio banale, il direttore della sala stampa vaticana chiede alla stampa di non scrivere niente delle accuse rivolte a Marcinkus perché sono «riservate», «infamanti» e Marcinkus non può replicare perché è morto, tutto quello che sta augurandosi che accada è che funzioni un regime di censura preventiva.
Magari non determinata dal sovrano (e questo, forse, grazie a re Silvio IV può accadere fra poco, come dice D’Avanzo).

Ma quella che chiede Lombardi, e con lui l’intero sistema dei poteri esterno ai giornali (definendolo «esterno» ricorro a un intenzionale e ridicolo eufemismo), è l’autocensura. Quel meccanismo in virtù del quale un giornalista non scrive ciò che sa e giudica sufficientemente notizia e sufficientemente verificato, ma solo ciò che è opportuno.
Scrive ciò che è opportuno per lui, per la sua carriera, per la sua tranquillità personale e professionale, per i benefici che gliene deriveranno in termini di facoltà d’accesso all’olimpo del potere. Per il credito di cui un giorno, al momento opportuno, potrà vantare la riscossione.

E questo, D’Avanzo, è già successo eccome.
Il terreno è già pronto. E non l’ha dissodato e arato e annaffiato solo Berlusconi, ma anche gente come Grillo: tutti quelli che «la colpa è della stampa», che «i giornalisti hanno capito male», «i giornalisti sono venduti».
Come la deriva – come dire? – «antipolitica» (i partiti fanno schifo, i politici rubano, meglio un politico ricco che non ha bisogno di rubare, e via col repertorio) ha prodotto un Parlamento svuotato di capacità rappresentativa e costituito da «nominati» di liste bloccate invece che da eletti, così il continuo riferirsi alla stampa come a un’accolita di bastardi schifosi che cerca lo scoop, si frega le mani a leggere gli sms hard degli intercettati e se ne fotte della deontologia ha creato i presupposti per il suo annientamento formale, dopo che la sua neutralizzazione sostanziale è già avvenuta, e con l’aiuto di folle di servili e utili idioti.

La pretesa di Cordeddu, a badarci, sta tutta dentro questo processo.
Cosa fa un’«annunciatrice»? Annuncia i programmi.
Ma una cozza non «annuncerà» mai, perché – motivandolo in modi più o meno accettabili – tutti sanno che l’annunciatrice dev’essere perlomeno carina.
Cordeddu, dunque, fa ciò che definisce una battaglia di principio assumendo in toto il principio base che da solo basta a scardinare ogni questione relativa alle sue asserite preoccupazioni per le «pari opportunità»: che ci sia qualcuno che ha diritto di parlare (o di «annunciare») non perché ha qualcosa da dire (la posizione professionale, francamente, non lo consente), ma perché è perlomeno carino.

Il che vuol dire avere compiutamente accettato che i contenuti non contano.
Proprio come chi vuole annientare la stampa, avendo sostituito al principio di realtà le asserzioni suggestive della propaganda.