lettera aperta al brunetta con la maiuscola

Dopo l’intervista a Brunetta uscita oggi su Repubblica, ho deciso che mi prendevo il tempo per scrivere quel che penso.
E in un soprassalto di megalomania ho deciso di scrivere una lettera aperta al ministro.
È qui sotto.
È lunga, e mi dispiace.
Ma, per citare un pezzetto della lettera, «per dire cose articolate c’è bisogno di tempo, e di pazienza.
Bisogna spiegare, argomentare. Non ci si può rifugiare dietro parole d’ordine come “fannulloni”, o “merito”, o “premio”».

egregio signor ministro

Egregio signor ministro,
Le scrivo senz’alcuna sicurezza che Lei mai mi leggerà, ma va bene così: lo faccio per me, perché non riesco a rassegnarmi alle parole d’ordine ideologiche.
Da tempo rifletto intorno alla Sua campagna che con approssimazione squadristica e populista tutti – e anche Lei – hanno il piacere di credere orientata contro i «fannulloni».

i significati

Ma dopo l’intervista che Le ha fatto Conchita Sannino della Repubblica ho deciso di impiegare un po’ di tempo per prendere le Sue parole – nella presunzione che Lei le abbia effettivamente pronunciate così come sono riportate – e dirLe che cosa esse significano per me.
Immagino che per Lei possa essere di nullo interesse, ma pazienza.

le sue parole

«Il segretario Epifani dice che non gli piace questo clima?», Lei dice. «Beh, mi auguro che dia il buon esempio e cominci anche lui una grande e seria autocritica. Mi rifiuto di pensare che il sindacato oggi in Italia voglia ancora difendere quel milione di fannulloni, a fronte di 60 milioni di cittadini che vogliono vedere premiato il merito e puniti i furbi. La grande maggioranza del Paese aspetta che cambino alcune cose fondamentali».

l’ideologia dell’autocritica

Le chiedo: perché Epifani dovrebbe «cominciare anche lui una grande e seria autocritica»?
La mia domanda prescinde dai contenuti specifici dell’azione sindacale di Epifani.
Perché, ministro, «anche» lui?
Chi altri l’ha fatta, questa «grande e seria autocritica»?
E perché, fatta da altri, è stata meritoria?
Quali risultati ha prodotto?

nessun rispetto per le idee altrui

Se Lei veramente chiede a Epifani di fare autocritica, spieghi a lui e a me – sia gentile – anche esattamente su cosa dovrebbe farla.
Dire che dovrebbe smettere di «difendere ancora quel milione di fannulloni» è un’affermazione che io considero volutamente imprecisa e propagandisticamente irrispettosa della serietà delle idee altrui.

gli interessi privati o quelli del paese?

Immagini che io faccia questa domanda: «Preferite che un presidente del Consiglio tuteli gli affari suoi o quelli del suo Paese?».
Quante persone crede che mi direbbero di preferire che un presidente del Consiglio tuteli gli affari suoi?
Ma in realtà, prima di fare quella domanda, io dovrei dire al mio interlocutore innanzitutto chi sia la persona a cui io sto alludendo; poi, quali elementi io possieda per credere che quel presidente del Consiglio stia facendo gli affari suoi e non quelli del suo Paese.
E poi, se mi rimane tempo, credo che avrei anche il dovere di dire quali sarebbero, secondo me, gli interessi del Paese.

un’autocritica «piccola e poco seria»?

Ma – al di là del senso e del giudizio che dell’azione di Epifani si voglia dare – torno dunque a chiederLe: perché «anche lui» deve fare un’autocritica, e nemmeno un’autocritica qualsiasi, ma addirittura «grande e seria», come se esistessero anche autocritiche «piccole e ilari», o «piccole e poco serie»?

la fedeltà a ciò che si pensava

Le riesce così difficile, ministro, pensare che ci sia qualcuno che, al contrario di quanto la vulgata ideologica di questi anni prescrive come necessario, intende per convinzione restare fedele a ciò che reputava giusto anche qualche anno fa?
Non sto dicendo che sia il caso di Epifani; o che io sia d’accordo con l’azione di Epifani e della Cgil.
Sto chiedendoLe, invece, perché Lei ritiene che l’autocritica sia in sé un valore.

la difesa dei «fannulloni»

Se Lei effettivamente crede che Epifani «difenda ancora quel milione di fannulloni» (a proposito: come ha calcolato questo numero?), vorrebbe per favore dirmi come pensa che l’abbia finora fatto, visto che l’avverbio «ancora» significa che ciò di cui si parla perdura da un tempo passato?

a chi serve il «fannullismo»?

Lei lo sa che i licenziamenti per giusta causa ci sono sempre stati, signor ministro?
Lei lo sa, signor ministro, che non licenziare e permettere l’esistenza di ciò che piace chiamare «sacche di inefficienza» consente il mantenimento di altissimi livelli di pace aziendale?
Lei lo sa, signor ministro, che se a un lavoratore – o a cento, o a mille lavoratori – un’azienda (pubblica o privata) consente di non lavorare, o di lavorare poco, o di lavorare male, beh, quell’azienda si è garantita un amico – o cento, o mille amici – che, se ci sarà una qualunque battaglia sindacale da fare, si terrà silenzioso e in disparte?

il «fannullone» per forza

Lei lo sa, signor ministro, che molti lavoratori sono letteralmente privati della possibilità di lavorare perché la loro inazione è funzionale agli interessi aziendali – e a quelli dei loro superiori – infinitamente di più che l’esercizio della loro capacità professionale?
Lo sa, non lo sa, non è d’accordo, o finge di non saperlo?

le attese della «gente»

Lei dice che «60 milioni di cittadini vogliono vedere premiato il merito e puniti i furbi», e che «la grande maggioranza del Paese aspetta che cambino alcune cose fondamentali».
Io Le chiedo: come può Lei sostenere – a meno che non intenda (come io credo che Lei intenda) utilizzare argomenti esclusivamente retorici, ideologici e propagandistici – che 60 milioni di cittadini vogliono veder premiato il merito?

quanti milioni, esattamente?

Sul metodo, signor ministro, lasci che io Le dica questo: se gli italiani sono effettivamente 60 milioni, io non capisco se il milione di fannulloni che Lei ha quantitificato prima porti la popolazione a 61 milioni oppure il numero di coloro che si aspettano di veder premiato il «merito» a 59 milioni.
Un’imprecisione come questa a me sembra ideologica e propagandistica, ministro.

60 milioni di «buoni»

Sul merito, vorrei chiederLe cosa Le fa pensare che i 60 milioni di cittadini che Lei immagina in attesa di veder premiato il «merito» non possano essere nemmeno in percentuale essi stessi furbi, prevaricatori, disonesti, incapaci, immeritevoli. E fannulloni.
Mi faccia capire bene, signor ministro: sta dicendo che in Italia ci sono 60 milioni di «buoni»?

lisciare il pelo porta consensi

Io non lo credo affatto, e giudico impossibile che lo creda Lei. A meno che Lei non pensi – come io credo – che lisciare il pelo ai «furbi», che da Lei si sentono trattati come nessuno ha mai fatto, ovvero come cittadini onestissimi in attesa del premio al merito, Le permetta di garantirsi molti consensi.

le «cose fondamentali» da cambiare

Forse ha ragione su un punto, signor ministro: «La grande maggioranza del Paese aspetta che cambino alcune cose fondamentali».
Però Lei non sa – e non dice – quali cose la maggioranza dei cittadini si aspetta che cambi.
Ciò che è fondamentale per Lei può ragionevolmente essere molto diverso da ciò che è fondamentale per me, signor ministro. E può essere molto diverso da quello che è fondamentale per coloro che vengono corrivamente definiti i «furbi».

il buon senso non tollera la diversità

Capisco che a chi, come Lei, pensa che esista un unico e solo modo di pensare – quello giusto, quello di buon senso, quello che si spiega in se stesso e non ha bisogno di ragioni esterne a sé e alla sua pretesa «autoportanza»: in una parola, il Suo – riesca difficile da credere, ma vorrei rassicurarLa sul fatto che esistono idee politiche diverse, signor ministro, che originano punti di vista differenti, e – soprattutto – priorità diverse.
E che ci sono interessi diversi – come in effetti diversi sono quelli di un «furbo» da quelli di un «onesto», per ragionare secondo categorie semplificate – che originano anch’essi punti di vista e priorità politiche differenti.
E questo, signor ministro, lei può fingere di ignorarlo solo ed esclusivamente perché Le fa comodo.

per spiegare ci vuol pazienza

So che sono noiosissima, signor ministro.
Tanto più che siamo solo al primo capoverso della Sua intervista.
Mi dispiace, ma per dire cose articolate c’è bisogno di tempo, e di pazienza.
Bisogna spiegare, argomentare.
Non ci si può rifugiare dietro parole d’ordine come «fannulloni», o «merito», o «premio».

cos’è il merito?

Cos’è, signor ministro, il «merito»?
Un concetto matematico?
Statistico?
Quantitativo? Misurabile? Dipendente da quali e quante variabili?
Qualitativo?
Ideologico?
Storicizzabile?
Fisso?
Politico? Politicizzabile?
Diverso a seconda dal punto di vista da cui lo si guardi?
Le sembra facile individuare il «merito»?

un giornalista «bravo» o no?

Le faccio un esempio del tutto teorico.
Poniamo il caso che un giornalista trovi un’enorme quantità di notizie assolutamente inedite e scrupolosamente verificate.
Poniamo anche il caso che quelle notizie riferiscano di alcune cose turpi, orrende e terribili che ha fatto il suo editore.
Mi dica, signor ministro: quel giornalista è da premiare perché è bravo o da licenziare perché diventa un problema?

non si può prescindere dal contesto

La domanda è solo apparentemente capziosa, signor ministro.
Credo di non forzare il Suo pensiero se immagino che Lei mi dirà che quel cronista è bravo.
Ma io Le chiedo ancora: e se quell’editore che ha fatto cose turpi – magari senza nemmeno sapere, per ipotesi, che fossero turpi – fosse Lei, signor ministro?
Questo esempio mi serve solamente a dire questo: che il merito, signor ministro, dipende dal contesto, dalle premesse e dagli obiettivi.

qualche esempio di «bravi»

In un regime totalitario, per esempio, è bravo chi riduce il dissenso anche con metodi violenti. E in un ufficio pubblico non necessariamente è bravo chi è più veloce, per esempio; può essere meglio dedicare a una pratica tutto il tempo che serve a seguirla scrupolosamente.
E questo Lei non può non saperlo. Perché se davvero non lo sa, mi stupisco di come sia potuto diventare ministro.

quantità e qualità

Non tutto è quantificabile, signor ministro.
Quando si tratta di agricoltura o industria, forse la produttività può anche essere quantificata (ma per farlo è necessario avere la totale certezza che il datore di lavoro mette a disposizione dei lavoratori tutti i mezzi tecnici e organizzativi per lavorare al meglio); ma quando si tratta di servizi, quale può essere il criterio?

abbiamo tutti le stesse attese?

La soddisfazione del cosiddetto «utente»? Ovvero di quella categoria che – abolito il senso della parola «cittadino» – sta al pubblico come le parole «consumatore» e «cliente» stanno al privato?
Lei è sicuro, signor ministro, che gli «utenti» siano tutti soddisfatti dalle stesse cose? Che abbiano tutti le stesse attese?

un esempio elementare

Le faccio un esempio.
Lei crede che tutti i genitori dei bambini in età da scuola elementare si attendano dagli insegnanti dei loro figli le medesime cose?
Non è più ragionevole immaginare che le attese siano diverse se non addirittura in molti casi divergenti?

la statistica al posto della politica

In questi casi come la misuriamo la coppia di valori soddisfazione dell’«utente»-«merito» del lavoratore?
Con una media statistica?
Ma non sarebbe solamente un modo per sostituire l’ideologia matematica alla capacità della rappresentatività e della mediazione della politica?
Non è un modo per fingere di agire secondo criteri apparentemente solo tecnici – e perciò neutri e incontestabili – invece di assumersi la responsabilità di fare una scelta politica per così dire «qualitativa», da argomentare con solide ragioni anche in uno di quegli ipotetici contraddittòri che i criteri «tecnici» consentono sempre di evitare?

la «povera gente»

Ora voglio solo dirLe poche altre cose.
Lei dice nell’intervista che sta facendo una battaglia «per la povera gente».
Anche qui, signor ministro: cos’è la «povera gente»?
La «povera gente» sono i 60 milioni di italiani che Lei ha prima detto essere in attesa che venga premiato il merito?
Se è così, La prego: rilegga le cose che ho scritto qui sopra.

il silenzio degli intellettuali

Lei dice nell’intervista che Le ha fatto rabbia «il silenzio acquiscente degli intellettuali» napoletani.
Sì, forse farebbe rabbia anche a me, così come mi fa rabbia il silenzio acquiescente dei giornalisti.
Ma Lei è veramente sicuro che fosse un silenzio acquiescente e non, invece, la consapevolezza amara del fatto che non c’era nessuna speranza?

il miracolo

Certo: per Lei la speranza dev’esserci eccome, se riesce a dire che il Suo premier ha – nientemeno – «salvato» Napoli.
Ma io mi domando: ci crede davvero?
Le dispiace dirmi come ha fatto, il Suo premier?
Le dispiace dirmi cosa esattamente significa aver «salvato» Napoli?
Le dispiace dirmi com’è stata possibile una simile salvazione, se nessuno – men che mai il Suo premier – risulta agli atti aver messo minimamente in conto la questione camorristica?

lei sta distruggendo il senso critico

Io penso che Lei e le persone che, come Lei, accreditano l’idea che per risolvere i problemi non serva nemmeno esaminarli, ma solo enunciarli populisticamente per titoli grossolani, nella presunzione che tutti sappiano ciò di cui si sta parlando e tutti istantaneamente siano d’accordo sulla base di una scia di senso comune, stiate distruggendo – per colpa o per dolo, chi lo sa – quel poco che resta del senso critico di questo Paese.

chi c’è al suo fianco

Accanto e Lei, a svolgere questo lavoro, trova molti miei colleghi giornalisti.
Lei si trova vicino, a reggerLe lo strascico, quelli che nella mia categoria hanno «abolito» la rilevanza del «merito» (nel duplice senso di «qualità che legittima la formazione di un giudizio positivo» e «contenuto sostanziale di un’affermazione») e hanno preferito diventare «furbi», rinunciando a spiegare la realtà, la complessità delle cose; rinunciando a cercare le notizie e accontentandosi dei comunicati stampa, senza curarsi della loro veridicità e degli interessi – evidenti o nascosti – a cui quei comunicati rispondono; rinunciando ad assumersi le responsabilità civili del proprio lavoro.

chi la sostiene sono i fannulloni: si sente in buona compagnia?

Con lei ci sono quelli che per ottenere la nocciolina dal potere, il biscottino dal sindaco o la caramella dal ministro, hanno deciso di svolgere unicamente il ruolo passivo di amplificatore delle parole d’ordine.

Chi tra i miei colleghi non si domanda che senso abbia la parola «fannullone» e si accontenta di registrare solamente il suono delle Sue affermazioni, signor ministro, è proprio un «fannullone», perché non si preoccupa di spiegare ai lettori quel che viene detto e quel che succede.

Chi la appoggia nella Sua campagna, signor ministro, sono i fannulloni.
Si sente in buona compagnia?