la signora carmen/part two

Eravamo rimasti ai segreti dei guru dei massaggi indo-balinesi.
Che poi uno ci pensa meglio e forse capisce che i veri segreti imparati da queste belle ragazze dalle sopracciglia ad arco alte un millimetro e mezzo massimo un millimetro e sei, mi voglio rovinare, arrivavano magari più dalla Thailandia che dal resto del sudest asiatico.

I corridoi sono lunghi e bui.
La neo-Fenech ondeggia e dice cazzo davanti a noi.
Un tale coi baffi non ondeggia e pare non dica niente, neanche cazzo, dietro di noi.
La circostanza non ci mette tranquille.
Paura è dir troppo, ma ci son volte che ti viene da pensare che se ti senti come una fetta di prosciutto in un sandwich può anche essere che ci sia una ragione, magari anche vaga.

Manca solo il tipo shabby che suona Simon and Garfunkel seduto per terra. Per il resto è come camminare nottetempo nella stazione di un metro.
Buio, umido, afoso.
E come per il metro, al livello del suolo non emerge praticamente niente di tutto quell’enorme spazio scuro che si allarga nelle viscere della zona industriale della città, brulicando di ragazze in camice bianco e uomini di una certa età.
Nei corridoi, di ragazze-clienti non ce n’è neanche una.
E, piaccia o non piaccia, ci dev’essere il suo bel perché.


«Guardate che abbiamo un parcheggio riservato ai clienti», aveva detto al telefono la signora Carmen con un intento tranquillizzante del tipo visto che brava ho pensato a tutto. «Ci sono le catenine bianche e rosse. Basta che voi le tiriate via e ci mettiate la macchina. Noi siamo proprio di fronte».

Giunte ivi che fummo, ancora non avevamo risolto una delle questioni di base: se eravamo il 50 per cento di Sex&The City; due tipe easy ma veramente serie; o semplicemente due esemplari femmina di umano decise a trarre il meglio (perché ci deve pur essere un meglio da trarre) dal massaggio ayurvedico e dalla conseguente dichiarata apertura incruenta dei sette chakra.
Che è sempre una bella prospettiva, a pensarci.
Soprattutto perché, per quanti possano essere i chakra che si aprono o anche solo si socchiudono, sangue in giro non se ne vede.

Davanti al centro benessere Nuova Aspasia (chissà com’era quella vecchia, ma fa niente), i posti auto riservati alle clienti erano tutti occupati.
Su uno stallo, però c’era il furgoncino di un’aziendina idraulica.
Accanto, c’era un tipo giovane che fumava una sigaretta. Tendo a invidiare abbastanza quelli che non hanno smesso di fumare e sono molto giovani, perché mi sembra che abbiano un sacco di tempo per godersi le sigarette e poi anche per decidere di smettere.

Scendo dalla macchina e mi avvicino.
«Scusi», dico. «Il furgone è suo?».
«Sì, è mio», dice lui.
«E lei è un cliente del centrobenesserenuovaspasia?».
Gioco a fare il tenente Colombo, ma non è che sono sicura di riuscirci. e mica solo per mancanza del trench.
«…».
Quell’istante di esitazione mi fa capire che ho vinto.
Ora si tratta solo di gestire il cappaò.

«È cliente?», ripeto.
«Beh, in un certo senso», dice lui. «Sto aspettando una persona».
«Ecco», gli replico. «Non è che sarebbe così gentile da attendere fuori dal posteggio con le doppie frecce, ché noi qui siamo in ritardo?».
Lui tace e alza un sopracciglio, però getta a terra la sigaretta.
Un trionfo.
Entro in retromarcia, la mia specialità.

I corridoi, allora.
Mentre ci inoltriamo nel sancta sanctorum, emerge la circostanza che la neo-Fenech che continua a dire cazzo voleva portarsi il figuro baffuto a bere il caffè con lei.
Io non l’avrei fatto neanche se mi avessero regalato un faro in Irlanda con connessione wi-fi. Ma chi sono io per decidere che una è un po’ zoccola solo perché le piace bere il caffè con uno che ha l’aspetto di un puttaniere?

Di là, la sauna.
Di qua, le stanzette.
Questione di scelte.
Al punto in cui siamo, ci fa già abbastanza impressione osare il massaggio.
Figuriamoci se possiamo pensare di metterci un telo di spugna e entrare nel covo dei califani.

Una bionda, giusto al bivio, ci accoglie descrivendoci la topografia del sito.
Non sembriamo interessate alla sauna, realizza.
Così ci fa girare a destra.
Ci tocca una stanza che si chiama «La suite della Bella Addormentata nel Bosco».
C’è la scritta fuori, non me lo sto inventando.
Mancherebbero i sette nani, al momento (non è il caso di star qui a pensare al Principe Azzurro).
Ma magari arrivano.
E noi siamo solo due.

Due lettini.
Una vasca.
(Una vasca?)
Tendaggi e drappeggi.
Fiori secchi.
Musichina.
«Lì ci sono due slip di carta», dice la bionda. «Spogliatevi pure».

Mi spoglio.
Apro la bustina delle mutande di carta, che immagino ci vengano date per non ungere di oli indo-balinesi i nostri slip di cotone
Le infilo.
Mia cugina – è lei, sì, la mia complice – si gira, mi vede e scoppia a ridere.
«Ma che cazzo hai fatto?», mi domanda.
«Perché?», dico io.
«Il triangolo più largo lo devi mettere davanti e quello più stretto dietro!».

Okay.
Rido, ma il cuore è ferito.
Oh se è ferito.
Il fatto è che per qualche motivo ho sempre pensato che meritasse più protezione il retro.
Il mio, perlomeno.

continua