parole per riccardo

È quasi un mese che, a 54 anni, è morto Riccardo, responsabile di lungo corso dell’ufficio dei correttori di bozze dell’Arena, uomo di grazia e di cultura, di origine toscana.

È arrivato il momento di pubblicare le parole che il 1° febbraio, nella chiesa di san Nicolò a Verona affollata di giornalisti (non è un particolare secondario), Marco Campedelli (che l’omelia ha scritto insieme al collega Roberto Vinco), ha detto di lui, della sua vita e della sua morte, nel giorno in cui Riccardo venne sepolto.

Siamo qui credenti e non credenti ma tutti pensanti, tutti con le nostre domande di senso… Tutti cercatori della bellezza, pellegrini dentro il mondo in cerca di parola autentiche.
La vita di Riccardo è stata a servizio della Parola.

Lui si è lasciato portare nel grembo della parola, per rinascere ogni mattina; parola che per lui era anche ritmo, era musica.
Questa parola ha saputo anche caricarsi sulle spalle, quando l’ha trovata sul ciglio della sua strada, ferita.
Riccardo ha sperimentato quando questa parola sa curare la vita, sa guarire e rialzare. Sapeva però che era anche un dovere etico prendersi cura della parola, medicarla, rimetterla in piedi.

Ascoltiamo una poesia di Mario Luzi, poeta non a caso, toscano anche lui, che ci può suggerire una direzione per riflettere intorno alla parola:

Vola alta, parola, cresci in profondità
Tocca nadir e zenith della tua significazione,
giacché talvolta lo puoi- segno che la cosa esclami
nel buio della notte
però non separarti da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo, sii
luce, non disabitata trasparenza…

Luzi denuncia una corruzione della parola che venga ridotta a mero segno, destituita di senso, «non più spirito ma lettera, e lettera morta».
Qual è il rischio, si domanda il poeta toscano. Forse proprio quello di «svuotare» le parole, «quando non c’è più rispondenza né nell’oggetto che essa [la parola] nomina né nell’uomo che riceve questa indicazione».

Il rischio segnalato da Luzi è una forma di «astrazione che svuota di senso vero della parola facendo perdere il contatto tra le cose e la loro nominazione».
Le parole allora sono «esuberanze inutili, perché non hanno più dentro di sé il “caldo umile” delle cose che dovrebbero nominare».
La parola che invece Luzi invoca, una parola “piena”, colma di senso, è propriamente la parola poetica.
Tuttavia il poeta prosegue rivolgendosi ancora alla parola, chiedendole di non separarsi da lui («non separarti da me»).

Il divorzio della parola con la vita è infatti la tragica conseguenza dell’allontanamento della parola dalla storia.
È dunque una tensione polare quella espressa da Luzi tra l’alto volo del verbo e, dall’altra parte, il tentativo di scongiurare il distacco del verbo stesso dall’urgenza della vita, dal suo concreto farsi.
L’invocazione, quasi una preghiera che il poeta rivolge alla parola, vuole esorcizzare questo pericolo; e a seguire, di nuovo il poeta incalza il verbo stesso pregandolo di non dimenticarsi del soggetto, dell’uomo che lo pronuncia: «non arrivare/ti prego, a quel celestiale appuntamento/da sola, senza il caldo di me».

Per Riccardo il non separare la parola della vita, dalla sua umanità ha significato il suo prendersi cura della persone, degli affetti, dei legami famigliari.
La sua cura per la mamma, per il papà e per il fratello Paolo.
Questo alto senso di responsabilità che sembrava togliergli quasi lo spazio per sé stesso.
Ma forse il caldo di sé, l’umile e testardo gesto di cura per chi amava dava valore alla sua etica: vivere per gli altri.

Per tutti noi oggi, per questa nostra città per il mondo della cultura a cui Riccardo era attento, iniziato dal padre Renzo Chiarelli la sua morte è un appello: abbiamo bisogno di una parola «diversa» dalle parole banali, consumate voracemente nel contingente!
Tuttavia, la «diversità» di questa parola che è «alta» e cioè non banale, non ideologica, non commerciale, non significa estraneità alla storia.

Significa che questa parola si carica di attesa rispetto a uno scorrere impersonale ed «eterno», astorico del tempo; si prepara a un «appuntamento» (nel tempo, nello spazio, nella storia) con il divino («celestiale»).

Il «caldo di me» che, evocato da Luzi, Riccardo aveva imparato a custodire richiama la pelle della parola, il suo corpo, il suo respiro che si fa suono; segnala la dimensione di una parola che si esprime anche attraverso i sensi, assumendo così un valore quasi sacramentale, nella sua duplice natura di materia e forma, di corpo e di spirito. Questo “caldo di me” esprime perciò anche la fragilità della parola, una parola che assomiglia al cristallo, così forte e al contempo così fragile..

Scrive ancora Luzi: «Possiamo in effetti rimanere ottenebrati dal nostro egoismo, quasi asserragliati dal nostro ego che ci chiude le porte e le finestre», fino al punto, continua Luzi, che «il mondo diventa muto, quasi una pietra tombale, una “epigrafe mortuaria”».

Abbiamo bisogno di parole che mantengano invece aperte le porte e le finestre così che si rende visibile l’Alto ma anche il Basso, il precipitare del mistero dentro la storia, il suo arrotolarsi sui piani sconnessi delle culture, sulla terra degli uomini.

Quali sono le parole che rimangono? Sono quelle che contengono un rischio, un sogno, un’utopia, sono quelle che custodiscono il calore dell’umanità.

Riccardo sapeva curare le parole ferite, sapeva ricucire quelle strappate. Sapeva che la parola deve rinascere.
E che una città può rinascere da parole nuove non più escludenti, non più violente, non più ammiccanti con il potere.
La parola rinasce quando per essa si paga di persona, quando con essa ci si butta con gratuità, quando con essa si sogna con semplicità
.

Questa parola come quella del Vangelo è allora spirito e vita!
Anche Riccardo dalla sua piccola «Barbiana» come don Lorenzo Milani conosceva il potere della parola che da dignità all’uomo, che è garanzia di diritto e di giustizia.
Dal suo umile tavolo di correttore ha saputo mantenersi fedele alla parola che libera e che rimette in piedi.

Le persone che l’hanno conosciuto parlano di Riccardo come un uomo «religioso» ma non clericale.
Di un uomo sanamente laico, così da poter vivere la vera «religiosità della vita».

Riccardo sapeva distinguere la parola del sacro dalla parola divina.
Come aveva compreso la filosofa spagnola Maria Zambrano sapeva che la parola del sacro è quella imprigionata, irrigidita in formule dottrinali, e ideologiche. La parola del sacro è quella del potere, mentre la parola divina irrompe nella vita, gratuita e necessaria come l’aria, come l’acqua che fa germogliare la vita.

Il verbo si fece carne. L’abbiamo ascoltato nel prologo del Vangelo di Giovanni. Ecco la parola divina. La parola che si fa relazione, cura, volto, che si fa alfabeto di pace, di giustizia, che si fa canto di risurrezione dentro la notte della morte.

In questo possiamo leggere la sua parabola di credente non clericale. Di credente che non voleva essere avvolto dal piviale del sacro. Gli bastava stare sotto la pioggia di grazia che scende dal cielo come in un temporale di primavera.

Riccardo era dotato di una buona dose di maturità sul piano culturale; ecco perché il suo lavoro era così necessario, un lavoro umile e coraggioso, con quella discrezione, pazienza e umiltà che come è stato scritto sul giornale.
Se doveva far presente ad un giornalista che aveva fatto un errore non gli diceva «Guardi qui ha sbagliato» ma invece «Scusi, ma secondo lei questa espressione è proprio quella giusta?».

Non faceva mai il nome di chi aveva fatto un errore, anche se gli veniva richiesto. Si assumeva lui la responsabilità.
Virtù rara in un tempo in cui si tende invece a scaricare le colpe su chi non ne ha
.
Riccardo sapeva come ricorda Paolo alla comunità di Corinto, che «la presunzione gonfia, l’amore edifica». (1Cor 8,1)

La parola allora serve a costruire una città, un mondo, nuovi, più degni dell’uomo.
Per rafforzare questa prospettiva, ci piace evocare un’altra immagine, che ci parla stavolta di Pablo Neruda.

Il poeta, impegnato nella campagna elettorale a favore di Salvador Allende, si trovava in un piccolo paese nei dintorni di Santiago del Cile. Così lo descrive Antonio Skàrmeta, autore del Postino di Neruda:

«Aveva piovuto, e le quasi duecento persone venute ad ascoltare il suo discorso avevano i piedi che sprofondavano nel fango. Era gente poverissima e di sicuro la loro condizione non gli aveva consentito di andare oltre i primi anni di scuola elementare. Il poeta terminò controvoglia il suo discorso e si accinse a scendere dal palchetto di legno, quando la gente glielo impedì gridando “Poesie, poesie, poesie!”. Neruda si fece pregare solo un minuto e poi prese di tasca un libro».

Riccardo aveva le tasche piene di queste parole che fanno vivere.
Abbiamo iniziato dando ascolto ad un poeta, Mario Luzi.
Concludiamo ascoltando i versi di un’altra poetessa, recentemente scomparsa, Alda Merini: versi in cui possiamo ritrovare l’umile, discreta, coraggiosa figura di Riccardo.

I poeti lavorano di notte
Quando il tempo non urge su di loro,
Quando tace il rumore della folla
E termina il linciaggio delle ore.
I poeti lavorano nel buio
Come falchi notturni od usignoli
Dal dolcissimo canto
E temono di offendere Iddio.
Ma i poeti, nel loro silenzio
Fanno ben più rumore
Di una dorata cupola di stelle.

don Marco Campedelli
don Roberto Vinco