il maestro cacciato e il razzismo dei giusti

La storia sembra che sia questa: un insegnante elementare parla (anche, e non solo) il suo dialetto campano in una classe di Pordenone e viene cacciato. Essendo supplente, si può fare.

Io non riesco a trovare nessuna possibile argomentazione a sostegno della legittimità dell’esclusione dell’insegnante, o anche a sostegno della necessità di una riflessione critica sull’opportunità di selezione degli insegnanti sulla base di un criterio di provenienza geografica.

Chi scrive questo pezzo, invece, sembra trovarne tante.
Il giornale è del gruppo Finegil. Repubblica-l’Espresso, insomma.
Sinceri democratici.

primo argomento: lo stupore dei bambini

«Il maestro ci parla in una lingua strana, dicevano i bambini ai genitori, ridendo e motteggiandolo».

prima obiezione

Ma veramente una storia come questa può cominciare dallo stupore degli allievi (e non dal loro terrore, dall’angoscia, o da altri sentimenti destabilizzanti)?

secondo argomento: l’«allarme» dei genitori

Allarmati (qui starebbe forse bene una virgola, ndr) i genitori, (qui la virgola sarebbe probabilmente da espungere, ndr) avevano bussato alla porta della dirigente.

seconda obiezione

L’affermazione dei bambini intorno alla «stranezza» della lingua è sufficiente ad allarmare i genitori? E l’allarme, esattamente, qual era?

terzo argomento: gli errori

Il meccanismo dei controlli era partito: attente visite in classe dell’ispettore inviato dall’Ufficio scolastico regionale e provinciale con supervisione dei quaderni e quello che è venuto fuori, sono stati refusi linguistici e peggio. Errori di grammatica e di lessico dei bambini, in tanti compiti ed esercizi.

terza obiezione (in due mosse)

Uno: non è che anche il cronista abbia avuto alle elementari la sventura di imbattersi in un insegnante campano o comunque genericamente portatore di livelli di cultura inferiore? Visto il contesto, questa potrebbe forse essere una spiegazione ragionevole al rapporto apparentemente non molto sereno con la punteggiatura, o a una certa qual resistenza all’articolazione dei pensieri in termini di relazione di causa/effetto. Nel pezzo si legge, come già riportato poco sopra: «… e quello che è venuto fuori virgola sono stati refusi linguistici e peggio…».

Se «peggio» è ciò che viene elencato dopo (e cioè «errori di grammatica e di lessico dei bambini»), non avrebbe avuto senso preferire al punto i due punti?
Tra l’altro: cosa significa «refuso linguistico»? I refusi non sono gli errori di ortografia specificamente riferiti all’atto di comporre testi con supporti tecnologici? E quanto al lessico, non ha più senso parlare di improprietà invece che di errori in senso stretto?

Due a): è stato dimostrato (e l’articolo ne dà conto o no?) il nesso di causalità fra il fatto che il maestro parlasse anche in dialetto campano e «i refusi linguistici e peggio» commessi dai bambini?
Erano errori «nordisti» o «sudisti»?
E nel caso in cui il punto di forza dell’ispezione fosse stata la scoperta di errori «sudisti» (unico caso in cui si sarebbe potuto eventualmente dimostrare il nesso fra impreparazione di quello specifico maestro e asserita incultura dei bambini), c’è forse qualcuno disposto a sostenere che gli errori «sudisti» siano più gravi di quelli «nordisti»? (Come vedremo tra poco, c’è. Solo che non se ne conosce il nome, ed è comunque un «tecnico» che esprime opinioni neutre e prive di contrassegno politico).

il quarto argomento non saprei proprio come definirlo

«Gli abbiamo consigliato di fare punteggio fino a gennaio per avere un risultato professionale in graduatoria – hanno detto dalla cattedra del secondo circolo con la promessa dell’anonimato – e di andarsene da questa scuola. Niente da fare: dispiace perché è una brava persona. Non parla sempre l’italiano corrente. Buon rapporto con i bambini, ma se il maestro non ha un idioma corretto che docente è?».

quarta obiezione

Cosa significa la frase «hanno detto dalla cattedra del secondo circolo con la promessa dell’anonimato»?
Che qualcuno ha parlato ex cathedra con il cronista?
Che esiste una e una sola cattedra del secondo circolo?
Che l’anonimato è stato promesso dalla cattedra del secondo circolo così come l’interpretazione letterale della frase autorizza a supporre?
O che l’anonimato è stato promesso dal cronista?
Che per motivi ignoti è necessario nascondere la propria identità dietro la formula oscura di «cattedra del secondo circolo»?
In fondo, le parole citate fra virgolette ambirebbero a riferire di un comportamento che si pretende generoso, equilibrato, ragionevole.
Forse che l’autore di questa «confidenza» si vergogna di quel che dice?
Perché il controllo sull’idioma non si rende necessario con gi insegnanti indigeni?

A proposito: per acquisire significato in questo contesto, il sostantivo «idioma» ha bisogno di un aggettivo che ne specifichi il perimetro concettuale di riferimento, perché «idioma» è il linguaggio tipico di uno specifico ambito geografico o culturale, e in se stesso non è né corretto né scorretto. Semplicemente, esso «è».
Sicché avrebbe avuto senso dire, forse: «Se il maestro non ha un idioma italiano corretto che docente è?»

quinto argomento: la tradizione

Avesse parlato friulano? «La “marilenghe” è un’altra cosa – dicono le esperte di lingua -. Questo non appartiene alla nostra tradizione».

quinta obiezione (in due mosse anch’essa)

Uno: qui, finalmente, la questione sembra illuminarsi dell’autentica luce in cui è stata inquadrata dai protagonisti della vicenda.
«Questo» (dialetto? Maestro? Fatto?) «non appartiene alla nostra tradizione».
Dunque, ricapitolando: se gli errori trovati sui quaderni dagli «attenti» ispettori fossero stati – che so – l’assenza di doppie là dove l’ortografia le esige, o qualche altro dialettismo locale indigeno, allora nessun insegnante sarebbe stato cacciato.
Anche se in classe ci fossero stati, magari, bambini che, provenienti da altre regioni o da altri Paesi, avrebbero avuto il diritto di apprendere la lingua italiana quale essa è – pur nelle sue evoluzioni – e non la «marilenghe».

Due: vengono citate «le esperte di lingua».
Bene: chi sono?
Il plesso o la scuola hanno in pianta organica figure professionali definite «esperte di lingua», e tutte femmine?
Se sì, perché non vengono definite semplicemente «insegnanti di lingua», evitando di alimentare ambiguità interpretative?
Se «le esperte» non esistono nella scuola o nel plesso ma sono state consultate dal cronista in altri ambiti, perché non vengono identificate con nomi e cognomi?
Se invece si intendeva fare riferimento a un generico ambiente di esperti di lingua (sulla falsariga di ciò che accade quando si scrive «alla procura spiegano che…»), perché si è inteso limitare il riferimento alle sole esperte femmine?

l’imbarazzo

Il caso ha creato qualche imbarazzo. «Il sindacato deve fare qualcosa – hanno suggerito alcuni colleghi -. Lo hanno silurato con pregiudizio. Non hanno usato lo stesso metodo in Provincia, per scegliere l’insegnante nella trasmissione “Parlare italiano si può” dedicata agli stranieri immigrati e da alfabetizzare, su TelePordenone? Il primo candidato di grande professionalità aveva una inflessione sicula: è stato silurato».

Qualche imbarazzo?
Cronista, ti prego, rifletti: «Qualche im-ba-raz-zo»?
Tu scrivi poco sotto che a TelePordenone han fatto la stessa cosa, e invece di chiamare i fatti con il loro nome – che è «razzismo» o, se ci piace di più, «antimeridionalismo» – minimizzi, giustifichi e nascondi dicendo che «il caso ha creato qualche imbarazzo»?

E infine: «Hanno suggerito alcuni colleghi». Anche qui, niente nomi né cognomi.

Chiedo scusa, ma un lettore – sia pur considerando la fretta e la pressione con le quali si deve lavorare nelle cronache dei quotidiani – che idea si può mai fare del fatto che esista un luogo in cui:

a) la gente non accetta di dare il proprio nome nemmeno per fare (da destra o da sinistra, non importa) affermazioni di tipo politico, o addirittura (è il caso degli «alcuni colleghi») per suggerire l’opportunità di una battaglia civile?

b) un cronista non chiede i nomi delle persone con cui parla, e – se anche lo fa – accetta senza che questo gli crei il benché minimo problema di omettere i nomi di coloro da cui apprende fatti non segreti (questo è importante)?

c) un cronista si ritiene autorizzato a non interpellare il diretto protagonista della vicenda (e, se invece l’ha fatto, si ritiene autorizzato o necessitato a non riferirlo)?

d) un pezzo di giornale che racconta una storia come questa non contiene mai la parola «razzismo»?

Infine, nota piccolina a margine.
«Settati, piccì» in dialetto campano non vuole assolutamente dire niente.
«Assétt(a)t(e), picciri’», o «assettàtt, picciri’», invece, vuol dire «siediti, piccolo».
Un minimo di verifica ci poteva stare, forse.
O magari non porsi il problema di storpiare il dialetto campano è un modo per trasmettere, lasciare trasparire, o non preoccuparsi del fatto che possa trasparire disprezzo?

Ho scritto «infine» ma sbagliavo.
C’è un’altra cosa.

Naturalmente, il cronista sarà completamente certo di non avere avuto la benché minima intenzione di scrivere assolutamente niente di ciò che io nel suo pezzo ho letto.

È del tutto possibile che intendesse tutt’altro.
Il problema, infatti, è proprio questo.
Oltre al fatto che i frutti del leghismo son tutti marci (o forse eran marce le radici).