la parola, il contesto e l’ascolto

Leggevo stamattina su Nazione indiana un intervento di Marco Belpoliti sulla manifestazione romana del 14 dicembre, quella che ha dato origine a un lungo filo di commenti in cui va ricompresa anche la lettera di Saviano «ai ragazzi del movimento».

Belpoliti dice che quella manifestazione è l’espressione di una rivolta e non di una rivoluzione. La tesi è – va da sé – ben supportata, anche se verso la fine del pezzo non sono riuscita a capire fino in fondo la differenza che Belpoliti istituisce fra evento artistico-performance e spettacolo-rappresentazione. Si veda qui:

La rivolta accade, alla stregua di un evento artistico, di una manifestazione momentanea, di una performance.

Non la si può rappresentare né in forma politica né spettacolare; è un accadimento estatico, più vicino alle forme religiose, alla festa, che non alle strutture della rappresentazione politica, quali un partito o un parlamento: vive, non si rappresenta.

La prospettiva è molto interessante.

A un certo punto, replicando ai commenti, Belpoliti scrive:

Chiedo scusa se intervengo solo di striscio, ma tenete conto che è scritto per La Stampa, un giornale che ha una maggioranza di lettori di centrodestra (se così posso dire); non è un saggio o un libro, ma un intervento a caldo per un pubblico di lettori così. Vi rimando, per quello che di più profondo c’è nel discorso da me abbozzato, al volume di Riga che ho curato da poco con Enrico Manera e dedicato a Furio Jesi. Lo si vede per sommi capi in http://www.rigabooks.it; grazie per il dibatitto che leggerò con interesse (se prosegue).

Questa precisazione mi ha fatto molto riflettere.

Se non ci fosse quel passaggio relativo ai «lettori di centrodestra (se così posso dire)», potrei pensare che il pezzo riportato da Nazione indiana sia uno scritto poco formale e poco accademico.

Però l’inciso c’è: ha forse senso che io ipotizzi che il pezzo avrebbe avuto contenuti diversi (meno sfumati? Più «radicali»? Sia chiaro che sto azzardando) se fosse stato scritto per un giornale di centrosinistra, o in piena libertà?

Per come vedo io le cose, la risposta è necessariamente un sì.
Posso capirlo, naturalmente.
Però mi domando, allora, quale sia l’influenza del contesto nel quale ci collochiamo sul tipo di contenuti che esprimiamo.

Sembra una questione di lana caprina, e probabilmente sciocca, anche, perché tutti sappiamo che a seconda dei contesti ci si deve esprimere in un modo invece che in un altro; è un elementare dettato di civiltà relazionale.

Però a me l’inciso di Belpoliti apre gli occhi su una questione della quale ho già detto qualcosa: e cioè sul fatto che gli intellettuali e gli scrittori che «appaiono» sui giornali e in televisione sono costretti – si sentono costretti? – a modificare non solo il paradigma espressivo, ma anche i contenuti.

Questo mi pare molto significativo, al di là dell’esempio specifico, perché comporta la conseguenza lapalissiana che tutti siamo chiamati ad accettare il fatto che non stiamo esprimendo il nostro pensiero, ma quella parte del nostro pensiero che riteniamo compatibile con il mezzo su cui ci stiamo esprimendo, e con i presumibili destinatari dei nostri argomenti.

Dice: ma anche questo lo sapevamo già tutti.
Bene.
Ma allora perché ci stupiamo quando qualcuno (ero io, ero io) dice che se ci accettano in tv una e poi due e poi tre e poi cento volte, be’, potremmo anche lasciarci sfiorare dal sospetto che ci chiamino perché stiamo dicendo non le cose che interessano a noi, ma quelle che interessano a loro (e perdonatemi la brutalizzazione)?

Di qui, io arrivo dritta a un altro paio di domande: ma se noi tutti sappiamo che le nostre idee sono «negoziate» con il mezzo e con l’uditorio, e cionondimeno ci stiamo, parliamo, appariamo, entro quali margini riusciamo ancora a dire onestamente a noi stessi che stiamo dicendo ciò che intendiamo dire? E quanto prezioso consideriamo ciò che abbiamo da dire, se accettiamo di dirne solo una parte?

Intendiamoci, però: considerare preziose le proprie idee è giusto e sano. Quel che dico è che riconosciamo l’esistenza di un piano di «personaggizzazione» di noi stessi, e come «personaggi» agiamo all’interno di un sistema di vincoli fissati dal mezzo e dal contesto.

Ma a renderci «personaggi» sono proprio i mezzi e il contesto. È qui che io vedo un cortocircuito.

Naturalmente non so come si possa risolvere, o spezzare. Però lo vedo, e fa male. Perché parla di quello di cui parla anche Barbara Gozzi qui, ovvero di come, se non hai «lo status di uno che dice cose»

(c)iò che hai da dire, le energie che attendono di essere indirizzate, le voci che ti sussurano, le idee. Magari escono lo stesso. Ma nessuno le legge. Nessuno sa che esistono. Nessuno ci fa caso. Nascono e muoiono, certe volte semplicemente non crescono perché per crescere non sempre ci si basta, certe volte una storia, un personaggio, un progetto, un intreccio, una denuncia, un pensiero ombelicale quanto d’impatto sociale (politico, etico, antropologico…) hanno bisogno degli altri.

Barbara parla di questa tensione fra il bisogno di dire e il bisogno/possibilità di essere ascoltati. Ma dice anche un’altra cosa. Dice che un po’ di giorni fa lei ha scritto una cosa sul fine vita (Barbara si è occupata a lungo e con passione di questo tema); questa cosa per lei aveva una sua importanza, un suo perché, eppure

(n)iente (che io sappia).
Allora stamattina mi sono alzata pensando che se un venerdì sera fossi stata dalla Bignardi a fare la barbarica poi qualcuno ne avrebbe detto (certo anche di me, le personaggiti son così alimentano se stesse, ma poi anche del fine vita).
Oppure: se un quotidiano a tiratura nazionale avesse pubblicato un mio intervento, in proposito. Se fossi in uno di quei luoghi del web riconosciuti come ‘luoghi dove appaiono gli scrittori’. Se, appunto.

So che tutto questo discorso porta a pensare che sono la solita invidiosa, acida, fallita, mancata, irrisolta, nevrotica, stronza, e tutto il resto che viene in mente. Che si pensi pure, pensate, pensate (pensate, pensate). Io dico che è così che funziona.

Ecco. Non so come se ne esca. Però sicuramente non si può ignorare che il problema esista, che investa le persone, la loro deriva in «personaggi», ciò che essi pensano e scrivono, e la deriva in «prodotto» di ciò che essi pensano e scrivono.

In un thread su Facebook, sulla bacheca di Giulio Mozzi, Michela Murgia recentemente scriveva a proposito delle firme e degli appelli che coinvolgono nomi noti in qualità di testimonial (una pratica sul cui senso politico ho più volte, per quel che valgono, espresso le mie perplessità):

(…) C’è chi appone la firma con un grado ulteriore di consapevolezza, e questo io credo sia quasi sempre il caso di chi ha un minimo di visibilità pubblica. Sono convinta che la maggior parte dei nomi noti che ha firmato non lo ha fatto perché astenersi pareva brutto. Dietro quella scelta c’è sicuramente una valutazione politica, una dichiarazione di appartenenza ad un mondo di valori piuttosto che ad un altro, e anche il senso di responsabilità – non nel mio caso, ma in quello di un premio Nobel, per esempio – che nasce dal poter far valere un’autevolezza altissima su un piano dove le idee di Mario Rossi in quanto tale non sarebbero mai ascoltate. In questo caso sono politici gli intenti e politici anche gli effetti, perché negarlo?

Anche la Murgia mette il dito sulla stessa cosa; sul fatto che Mario Rossi, semplicemente, non esiste – è come se non esistesse – perché non «arriva». E non arriva perché non è visibile. Nelle parole che ho riportato qui sopra c’è l’espressione di un problema che è prima di tutto politico, ma poi anche giornalistico-mediatico e pure sociologico. Mi pare – ma mi rendo conto che posso sbagliare – che esse implichino una funzione di «autorevolizzazione personaggistica» delle istanze.

Manca un pezzetto, in questo: e cioè chi sia a fissare i canoni dell’autorevolezza. Nel caso del Nobel sarà bene non entrare nemmeno, me ne rendo conto. Ma nel caso delle persone che hanno «un minimo di visibilità pubblica», come posso – io – dare per assodato e presupposto che essi abbiano per definizione «un grado ulteriore di consapevolezza»? È la stessa domanda di prima – chi determina l’autorevolezza – declinata in modo appena un po’ diverso. È chiaro che chi ha pubblicato con una grande casa editrice ha più probabilità di essere autorevole di chi ha pubblicato con una casa editrice piccola, perché si suppone che i meccanismi di selezione funzionino con più accuratezza. Però non è detto.
E, anzi, spesso ci lamentiamo un po’ tutti del fatto che le cose funzionino a rovescio.

Mi rendo conto di non essere in grado di prospettare soluzioni né vie d’uscita; ma il problema lo sento anch’io. È un problema di identità sociale, di senso di sé. È un problema che ci investe tutti. Vali se sei un mondadori? Vali se ti ascoltano? E che succede se sei Mario Rossi e hai delle cose da dire? Come dice Barbara, ti considereranno sempre e solo lo stronzo invidioso, o qualcuno – magari – avrà la curiosità? E se qualcuno ti ascolta, che cosa succede?