la pianta carnivora

La foto viene da qui: http://giustoacaso.it/pianta-carnivora.html

La foto viene da qui: http://giustoacaso.it/pianta-carnivora.html

Io spero questo: che per imparare non sia mai troppo tardi.

Cioè: so che è così; il vero problema è avere il tempo per godere di ciò che si è imparato, per quanto tardivamente.

In questo periodo, mi rendo conto che avere vissuto in un ambiente ostile per un tempo così lungo mi ha aperto ferite che, come un taglio sulle ginocchia, possono tornare a fare uscire un po’ di sangue quando si mette alla prova l’articolazione.

Non riesco a credere che le conseguenze possano essere così resistenti.
Per molti anni ho vissuto in un luogo nel quale la prima regola che si deve imparare è che si è impotenti, che non si può cambiare nulla di quel che si vive, che si deve accettare lo stato di cose, e che non c’è alternativa.

Mi sono domandata a lungo – l’ho anche scritto qui sul blog, credo – quale tremendo effetto un simile allenamento possa avere sulla vita sessuale di un maschio.
Quale effetto abbia avuto sulla mia è cosa di cui sono consapevole, naturalmente; ma grazie a dio – o a una mia dimensione di terragna vitalità che si ostina ad affiorare – la consapevolezza sufficientemente tempestiva mi ha consentito di mettere in atto opportune contromisure.

L’autostima è una faccenda delicata.
È bene averla; è bene sottoporla alla prova dei fatti; è bene verificarne il senso.

Non è mai bene averne troppa o troppo poca.
Averne troppo poca è una questione che finisce sempre per tradursi in una (a volte momentanea, a volte perpetua) richiesta di affetto, o di approvazione.
E ci sono situazioni in cui si finisce per sentire il bisogno di avere l’approvazione delle persone che disistimiamo.

A me è capitato.
Mi è capitato perlopiù in passato, credo; ma la tentazione è sempre lì in agguato. A superarla impiego un tempo breve, ormai. Si tratta di minuti. Qualche volta di ore. Ma la fatica che mi occorre, anche solo per qualche minuto, ha un colore che toglie luce al mio cuore.

Non so più chi – uno che ha un suo senso, credo – abbia detto che la vera felicità sia fare il lavoro che ami.

Io non lo so.
Non lo so più, perlomeno.
C’è un momento nella vita in cui sembra certamente così.
Sei ragazzo. Hai tenuto la bocca chiusa così a lungo, quand’eri bambino, che la tua idea di felicità è poter dire, poterci essere.

Il lavoro ti dà una possibilità di sperarlo.
Se poi è il lavoro che avevi sognato, be’, direi che la sensazione di poter toccare la felicità è praticamente inevitabile, soprattutto se quel lavoro non te l’ha regalato nessuno.

Cominci a pensare che il tuo lavoro abbia senso.
Pensi che tu puoi fare qualcosa per cambiare il mondo.
Sai bene che puoi fare cose piccole, ma questo non ti scoraggia, perché le cose grandi forse potranno arrivare col tempo. O forse no, ma intanto stai facendo quello che hai sempre sognato, e per i progetti c’è tempo, perché tutto quel che ti serve è stabilizzarti in un’identità: quella di chi è riuscito a ottenere qualcosa da se stesso.

Poi, ti chiedono di stare al lavoro di più.
Ti dicono che se vuoi un contratto devi accettare di lavorare di più.

E tu dici a te stesso che in fondo è equo. Di te non sanno niente: hanno bisogno di metterti alla prova.

In realtà l’hanno già fatto, altrimenti nemmeno ti chiederebbero di lavorare di più, ma tu non lo sai, e pensi che devi meritarti quel che avrai.

Così, dici sì.
E cominci a interessarti al giudizio che viene dato su di te da chiunque sia in potere di modificare il tuo destino.

Ti rendi conto che può ben darsi il caso che chi decide del tuo destino sia una persona che non stimi, che non vorresti avere come amico; una persona con cui non vorresti proprio avere a che fare, anzi.
Però ci caschi.
Ci caschi e cominci a chiedere approvazione.

Torni il bambino che gattona.
Gattono bene, signor capo?
Gattono bene, signor sottocapo?
Gattono bene, signorina centralinista?

Lo chiedi a tutti, anche senza parlare.
E – indovina? – la gran parte delle persone con cui hai a che fare ti capisce anche se non parli.
Molti vedono nel tuo corpo ‘socialmente esposto’ una fantastica voragine in cui infilare attrezzi atti ad offendere.

Tutto comincia così.

E quando finalmente hai un contratto vero di lavoro, l’idea è che tu debba ringraziare, perché c’è chi ancora aspetta.

Non vieni nemmeno sfiorato dall’idea che il contratto ti spetta, ha senso.
Che sai fare il lavoro per cui ti pagano, che ti hanno – anzi – pagato troppo poco, e che è venuto il momento di farsi pagare il dovuto.

E poi cominci.
Ora che sei assunto devi lavorare di più perché sei assunto.
C’è sempre un motivo valido per lavorare di più.
In genere, appare come un motivo interno all’organizzazione del luogo in cui lavori. In realtà, quel motivo ha senso solo perché ciò di cui tu vai in cerca è l’approvazione.

È vero che se non fai così tutto quel che ottieni è uno stipendio e buonanotte, e che se credi nel lavoro che fai hai bisogno – in genere – di qualcosa di più che uno stipendio; hai bisogno di motivazione, di vista, di progetto.
E quel futuro sembra che possa arrivare solo se accetti tutto questo.

Poi arriva un giorno in cui ti rendi conto che la persona che ami vorrebbe stare più tempo con te.
Ti fa piacere, ma tu sei ancora impegnato a cercare il tuo posto nel mondo, e quel desiderio altrui ti sembra un vincolo al quale è sbagliato assoggettarsi.
Il che, entro certi limiti, è certamente vero: se non altro perché le relazioni si costruiscono misurando prima di tutto la propria autonomia.

La tensione, paradossalmente, si sposta dentro casa.
Non in termini di litigi; non necessariamente, perlomeno.
Ma in termini di sensi di colpa, per esempio.
Il lavoro ha sempre ragione, soprattutto se nessuno ti ha regalato niente.

E poi il tuo cuore comincia a stare stretto nella cella in cui l’hai cacciato.
Cerca cielo, aria, sole.
Lo trova.
Trova un figlio. Trova la gioia di dare la vita.

Ma anche tuo figlio deve dividerti con il lavoro.
Le tensioni si moltiplicano.

Tu sai che il tuo lavoro lo sai fare. Ti dispiace mollare. E infatti non molli. Tieni duro.
Ottieni perfino qualche risultato in termini di carriera.

Così, le tensioni aumentano ancora di più.
Non c’è solo il rapporto coi capi, non c’è solo il rapporto con la persona che hai scelto come compagno di vita, non c’è solo il rapporto con quel meraviglioso essere umano che stai imparando a conoscere: tuo figlio.
C’è anche il rapporto coi tuoi ex pari grado al lavoro.

E se l’ambiente di lavoro è uno di quegli ambienti in cui il clima risente di una sorta di impostazione da caserma, o da colonia (non saprei se estiva o penale, e anche questo è curioso), il fatto che tu abbia le stellette mette in moto una serie di reazioni.

Non conta il tuo passato, la tua capacità, la tua dedizione al lavoro.
Conta solo che tu sei stato promosso e altri no.

E a volte è qui che comincia la guerra.
Tu cerchi di combatterla perché ti senti forte.
Non usi le armi da fuoco. Usi le parole, e la gentilezza. Qualche volta anche la fermezza.

E tutto quel che ottieni è aggressione e silenzio.
La pianta carnivora ti chiude dentro.

Tu chiedi quel che c’è da chiedere; quel che la situazione imporrebbe di chiedere; quel che le relazioni umane ordinarie consentono di considerare normale chiedere.
Ma la pianta carnivora non risponde.

Tu non conti un cazzo. Il messaggio che ti deve arrivare è questo.
Tu parli e io non ti ascolto.

E se tu ti arrabbi, la pianta carnivora si stupisce della tua rabbia: ma come? Non sai che va così? Dove pensavi di essere? Su una pianta normale? Ma io sono una pianta carnivora! Qui non valgono le leggi di natura: valgono solo i miei denti, il mio apparato digerente, la mia capacità di digerirti e di espellerti come deiezione.

Tu cerchi di domandare ancora. Sei uno ostinato. Non ti rassegni.
Ma la risposta è sempre il silenzio.
È sempre lo stupore.

Chi vive con te nella pianta carnivora non conosce altre piante, o forse non ha interesse per le magnolie, le querce, i ciliegi.
Non capisce perché tu faccia tante domande.

La pianta carnivora ti paga. Ti serve forse altro?
La pianta carnivora ti dà dei privilegi. Se vuoi, puoi perfino partecipare del potere. Cos’altro ti serve?

Ma tu ci provi ancora.
Ti ricordi del bambino che sei stato. Non sei disponibile a metterlo a tacere. Vuoi che abbia le sue risposte. Vuoi che possa sentire che stai facendo qualcosa per lui.
E c’è anche un figlio che vuoi possa andare a testa alta, fiero di te.

Dunque non abbassi la testa.
Non alzi la voce; non offendi; non tratti male nessuno, perché le persone vanno sempre rispettate, e la loro storia sempre ascoltata.

Ma quella testa alta dà fastidio.
La pianta carnivora ti sposta sempre più vicina al foro attraverso il quale – ah, il potere dell’immaginazione – spinge le sue deiezioni verso l’esterno.

Sempre un po’ più giù.
Tu chiedi perché, ma non serve.
La pianta tace. Tutti tacciono, nella pianta.

Ti vedono andare giù, e hanno paura di fare la tua stessa fine.

E tu cominci a pensare: ma il mio compagno? Ma mio figlio?
Vorresti riavvolgere il nastro, godere della loro compagnia e della loro vicinanza ogni minuto possibile.

Non puoi, però.
Sei nel mezzo di una guerra.
Non vuoi essere eiettato dalla pianta carnivora.

Per questo parli, chiedi, domandi, argomenti.
In modo sempre più chiaro.

Ma chi sta nella pianta si rende conto che stai andando sempre più vicina al buco.
Lo vedi anche tu, e punti le mani verso l’alto in cerca di qualcuno che possa aiutarti.

Trovi un paio di mani, ma non bastano.

E ricominci a chiedere, a parlare.
Silenzio.

In giro, però, si dice che tu farai una brutta fine.
Tu provi a combattere, ma il messaggio è: tu sei impotente. Tu non puoi. Tu non sei in linea. Tu hai stellette che non dovresti avere. Tu fai troppe domande. Tu chiedi troppe cose. Tu vuoi sapere i perché. Tu capisci quel che vedi. Qui non si può. In questa pianta carnivora, anche chi capisce deve fingere di non capire.

Siamo all’ultimo atto, o quasi.

Ti scontri a duecento all’ora addosso a un muro.
È il muro del «non-posso-fare-niente».
È il muro del «getta-via-i-sogni».
È il muro dell’«hai usato il tuo tempo per il lavoro, e non per il tuo compagno e per tuo figlio».

Ti gira la testa.
Quando tenti di rialzarti non capisci dove sei, né cosa esattamente sia successo.
Fatichi ad andar dritta quando cammini.
I rumori ti rintronano in testa.
Ti viene da vomitare.
Piangi.

La pianta carnivora sa che piangi, e dunque comincia a pensare che è venuto il momento giusto per fare agire i suoi sfinteri con quel tanto di energia in più necessario a sospingerti un altro po’ vicino al buco.

A quel punto, i giochi sono fatti.

Tu senti che la puzza di merda aumenta sempre di più, e capisci che sei nel punto dell’intestino della pianta carnivora dove le deiezioni stanno decomponendosi prima di essere espulse.

Ti vedi e ti senti decomporre.
Non ti piaci.
Sei impotente e orrendo.

Cerchi di recuperare quel che puoi con i tuoi amori.
Loro capiscono che la situazione è grave.
Il tuo compagno ti dice «Lascia, vattene, devi salvarti».
Tu hai ancora in testa quell’idea che il lavoro è quel che ti serve; che la più grande delle felicità eccetera eccetera.

Ma il buco è veramente vicino, ormai.

E così reagisci.

Vai da coloro che hanno il potere di farti risalire lungo l’intestino della pianta carnivora.
Si chiamano giudici.
Quando ogni altra strada è chiusa – e dio sa se tutte le strade che hai provato si siano dimostrate tragicamente chiuse – la cosa a cui ricorri si chiama «giudice».

Allora, la pianta carnivora dà la spinta finale, affinché tu esca come uno stronzo dal suo buco.

Perché la tua riduzione a stronzo sia completa, ti propone una somma di denaro con la quale sancire la tua riduzione a stronzo.
Stronzo non libero di dire che sei stato cagato fuori.

Tu dici «no, grazie. Sono uno stronzo, ma sono uno stronzo libero».

Ti guardi intorno.
Realizzi.
Sei ancora vivo.
Non sei uno stronzo.
Hai gambe, fiato, corpo, cervello, amori, gioia di vivere.

Ma lo stesso ti senti come qualcuno che sia passato attraverso il pestaggio di una gang metropolitana con bastoni e catene.

Ci vuole tempo, ti dici.

Ma il tempo non finisce mai.

Ecco perché io voglio sapere se posso imparare la lezione che essere stata cagata fuori da una pianta carnivora non significa che io sono uno stronzo (nel caso specifico, «una stronza», naturalmente; fiera della sua «a». Ma non starei qui a sottilizzare).

Ecco perché io voglio sapere se posso imparare la lezione che quello che faccio ha senso, futuro.

L’intestino di quella pianta carnivora è pieno di merda, e si prolunga oltre il suo culo, come sa chiunque abbia fatto esperienza di ciò di cui sto parlando io.

L’intestino può venirti a prendere anche in un altro Paese.
Tu sai bene che non è così. Ma quel che hai subito è difficile da superare, perché la distruzione quotidiana e sistematica della tua autostima ha tritato la tua fierezza.

E non è questione di non avere il fisico, o di non essere ancora stati capaci di farsi una ragione di quel che è successo.

È questione che questo genere di esperienza ha esattamente questi costi.

Io sfido me stessa giorno dopo giorno a fare di più, e meglio, e con più energia.
E di quando in quando – zac – mi ritrovo nell’intestino della pianta carnivora, in mezzo all’altra merda.

Magari in sogno, o magari quando un evento trascurabile e banale mi mette in condizione – come un profumo – di ritrovarmi senza volerlo in situazioni che hanno temperature emotive delicate.

No.
Non è questione di non avere il fisico.
È proprio che il tipo di danno che ti fanno le situazioni come queste è un danno di questo genere.

Non so come dirlo.
È come rimetterti al volante dopo un incidente.

Io sono di nuovo al volante, e guido, e guido perfino dall’altro lato della strada.
Ma ogni tanto senti il rumore di quel crash, e tutto torna fuori in un malefico istante.

E in questi casi, ci sono solo due sistemi: andare a comperare qualcosa, ma questa strada mi è al momento preclusa, sempre grazie alla pianta carnivora; o fermarsi, respirare, guardarsi intorno, abbracciare chi ci ama, e dire a se stessi che il meglio deve ancora venire.

Ma crederci è sempre più difficile.