ridatemi robespierre

andare_al_di_laMattia Feltri, figlio di Vittorio, scrive sulla Stampa – nel pezzo che leggo per come viene riportato qui da Dagospia – che c’è un’intesa per abolire la previsione della detenzione in carcere per il reato di diffamazione, e che

tuttavia la diffamazione continuerà a essere un reato penale, con pena calcolata in multa, il che impedirà ai giornalisti – unico caso fra i professionisti italiani – di sottoscrivere un’assicurazione: siccome il reato è un dolo, e non un errore, la polizza non esiste.

Uno: «reato penale» è come dire «giornata soleggiata di sole».
Se è «reato», è per forza penale. Altrimenti si chiama «illecito».

Due: non è che «il» reato in se stesso sia, secondo l’ordinamento, sempre un dolo, come mostra di credere l’editorialista Feltri.
Esiste l’omicidio colposo, per dire; esistono le lesioni colpose; esiste l’omicidio preterintenzionale.

Il fatto è che – cito da «Diffamazione, internet e libertà di stampa» di Stefano Cultrera –

la responsabilità penale per il reato di diffamazione non può prescindere dalla sussistenza del dolo, elemento essenziale del reato.
Tale concetto implica, quantomeno, che l’agente, nel realizzare con coscienza e volontà l’azione (o l’omissione […]), si sia reso conto della capacità offensiva delle dichiarazioni.

Se non c’è dolo – e basta il dolo generico – non c’è reato.
Puff.
Sparito.
Ciao reato.

Come viene spiegato più sotto nello stesso volume,

il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico, essendo sufficiente ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due».

E cos’è il «dolo generico»?

il dolo è generico quando la legge richiede per l’esistenza del reato la semplice coscienza e volontà del fatto materiale.

Cioè – cito ancora –

basta che l’agente abbia la consapevolezza di ledere l’onore o la reputazione di un altro soggetto.

A me sembra una formulazione piuttosto ragionevole. Tanto più che la verità è una scriminante. Cioè, se scrivi/dici una cosa vera, e la scrivi/dici rispettando la continenza, se l’affermazione è pertinente a ciò di cui ti stai occupando, e se c’è un interesse pubblico alla conoscenza della cosa che scrivi/dici, allora non commetti diffamazione nemmeno se la notizia che diffondi ha un potenziale diffamatorio.

Ma continua Mattia Feltri:

per l’ordinamento italiano le cose scritte continueranno a costituire materiale per le procure e i tribunali, invece che per un giudice civile che infligga sanzioni anche severe: risarcimenti economici, sospensioni dalla professione, arretramenti di carriera.

Al di là della mia convinzione che la diffamazione debba restare un reato, perché il giornalista che la commette non crea un vulnus al solo diffamato ma anche alla credibilità della sua professione, e al senso civile della sua professione, vorrei capire come faccia Feltri – non da solo, ahimé – a pensare che la prospettiva di dover pagare molto denaro e di essere sospesi dall’esercizio della professione possa risultare previsione più tenue rispetto a quella del carcere, previsione che la stessa norma attuale considera alternativa alla multa.

I sostenitori dell’idea che la diffamazione debba diventare un illecito civile, inoltre, dimenticano che il codice penale stabilisce una cifra massima della multa, ben lontana dalle decine di migliaia di euro. So bene che un diffamato ha sempre la possibilità di ottenere la liquidazione del danno in separato giudizio civile.
Ma in Italia non ho notizie di danni per ottocentomila euro, o per un milione di euro, come quelli riconosciuti dai giudici in Paesi in cui la diffamazione è illecito e non reato.

Se il reato diventa illecito, è del tutto ragionevole pensare che l’entità del risarcimento civile aumenterà, poiché assumerà il ruolo di riparazione unica ed esclusiva.

Siamo sicuri che gli editori pagheranno?
Siamo sicuri che non usino il risarcimento per far fuori i giornalisti di cui intendono liberarsi (tanto più se, come pareva, l’intesa prevede la deresponsabilizzazione del direttore ‘responsabile’)?

Ma il punto in cui veramente trasecolo è quello in cui Feltri jr fa riferimento all’arretramento di carriera.

Sta dicendo che la decisione di un giudice dovrebbe avere effetto sulle progressioni di carriera di un giornalista regolate dai contratti e dalle negoziazioni?

Sta dicendo che un giudice dovrebbe avere il potere di far retrocedere un giornalista dal ruolo di caporedattore a quello di redattore ordinario?

Ma si rende conto, Feltri?

Pensa forse, Feltri, che a un giudice vada consentito di decidere quale ruolo debba avere un giornalista all’interno dell’organizzazione di un giornale?
Che debba sostituirsi al direttore responsabile?

Se questo è il liberismo, se questa è la depenalizzazione, se questo è il garantismo, beh: ridatemi Robespierre.