conformità

prigionieroSul mio profilino che la Guanda ha sistemato insieme agli altri in fondo all’antologia «Tra una vita e l’altra», appena uscita, c’è scritto

«il suo blog è www.federicasgaggio.it».

In qualche momento quella piccola bio devo averla approvata io in persona, ma lunedì scorso – quando l’ho vista stampata – ho realizzato che su questo blog non scrivo niente da tanto tempo.

Negli ultimi tre anni e mezzo la mia identità è andata soggetta a uno smottamento di tali proporzioni che se dovessi paragonarmi a un paesaggio fisico dovrei dire che dove c’era una montagna adesso c’è una valle.
Sono seduta al tavolo di Vib, la curva più recente che ha fatto la mia vita, e ascolto Michael McGoldrick. Alle due e un quarto c’è abbastanza quiete da pensare che riuscirò a finire un post.

Per una giornalista, scrivere è normale. Anche sostenere un’opinione è normale. Anche avere un’idea di mondo è normale; e anche avere qualcosa da dire a proposito delle persone che si incontrano.

Per una persona che gestisce un luogo aperto al pubblico, invece, l’espressione di un’opinione può essere un problema.

Sono mesi che mi tengo dentro cose. Sono mesi che non dico.

dal bassoAvere qualcosa da vendere significa esercitare la virtù della tolleranza.
A me piace molto quando le persone entrano qui e mi raccontano di sé. Mi piace quando sembrano convinte di essere brutte – con se stesse le donne sanno essere feroci – e invece escono di qui un po’ più fiduciose nel loro aspetto.
Mi piace quando una donna mi chiede notizie, vuole vedere, s’incuriosisce.
La curiosità altrui dà senso a quello che faccio io. Ogni pezzo, qui, ha un suo perché, e io sono felice di poterlo raccontare.

Il confine fra la tolleranza e l’ipocrisia è proprio sottile.
Non è che io pretenda di dire proprio tutto tutto quello che mi viene in mente. So che l’ipocrisia è una necessità civile.

È che alcune cose sono proprio mie, come Wrapped Around Your Finger che sta suonando adesso, alle 19.43.

È che Vib è nata con una sua ossatura, con una sua storia, e con un suo progetto. E questo progetto non prevede la novità che io taccia.

righefioriDi questa vita io sono nuova, e finora ho adottato un principio di cautela.
Dunque, sono mesi che mi tengo dentro cose. Sono mesi che non dico.

Per esempio, non dico che avere a che fare con alcune donne è molto difficile, perché sono il prototipo di quella veronesità che mi mette in difficoltà fin da quando ho memoria di me.

A mettermi in difficoltà è la veronesità che mette il valore della conformità al di sopra di tutto.
Quel modo di essere per il quale il minimo contrassegno di eccentricità autodeterminata – non telecomandata dalle bizze della Spectre degli Stilisti che han deciso che quest’anno si va di frange e di salcazzo, intendo – è considerato un eccesso, un azzardo.

Ci sono molte donne per le quali è impossibile indossare un abito un pochino diverso.
Se hai i soldi, vai di Marchio-Molto-Figo [ed eventualmente, chissenefrega se non si sposa bene con la tua natura fisica da coldiretta].
Se hai pochi soldi, vai di Zara, Coin e (le arditissime) Desigual.
Se non hai soldi, vai di Pimkie.

In giro per i negozi quest’anno ho visto tanto color senape. Perfino nel tempio dell’immutabile – le vetrine di Luisa Spagnoli – ci sono giacchette color ocra.
Ora. Il senape – seriamente – sta bene a pochissime donne. Eppure, ora che la Polizia della Regolarità l’ha legittimato anche nelle vetrine della città, le veronesi possono indossarlo con relativa serenità. Forse di notte possono anche avere qualche senso di colpa, ma poi si ricordano le vetrine di Sisley e si rimettono a dormire.
Il colore ocra non ha più natura eversiva. Coprirsi di ocra non configura più l’illecito tentativo di attirare l’attenzione su di sé.

Attirare l’attenzione su di sé, per una veronese del tipo che mi mette in difficoltà, è un peccato mortale. L’imperativo è confondersi con il fondale, adottare un abbigliamento mimetico.

minettiLa necessità della mimesi comporta conseguenze diverse a seconda del fondale sociologico su cui si sceglie di operare.

La veronese di categoria valchiria-quaranta/cinquantenne-in-acchiappanza considererà di avere assolto gli obblighi di mimesi se avrà indossato scarpe molto molto alte con il tacco molto molto a spillo e la sagoma molto molto a stivaletto. Intorno alla scarpa, si costruisce tutta una personaggia che va di gamba nuda (attestata la variante gamba-nuda-e-calzettone: stronca la figura ma vuoi mettere la mimesi), gonna corta (attestata la variante pantalone aderente di pelle/jeans strappato), e giacchino leggero perché se anche mi viene il cimurro che cosa vuoi che sia.

Sembrerebbe un modo di vestire potenzialmente eccentrico. Ma in realtà il range di oscillazione delle varianti è perfettamente controllato da un algoritmo di conformità.

La veronese di categoria tengo-famiglia-e-denaro-o-quantomeno-aspiro-a-entrambi, invece, sente il dovere di non lasciare alcuna impressione sulle pupille degli osservatori. La vedi, la saluti, le parli, e tutto quello che ti ricordi è che forse c’era qualcosa di beige. Se la borsa proprio non l’hai vista, novanta su cento è una Vuitton, ma c’è una residua possibilità che si tratti di una Miu-Miu.

Ecco. Con queste donne faccio gran fatica a entrare in sintonia, perché hanno un’idea della femminilità omologata, moralista (sì: a Verona è moralista anche la valchiria in acchiappanza) e autopunitiva.

E adesso, uccidetemi.