bàndolo, s. m. Oct20

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bàndolo, s. m.

prigionieroPiove, per terra non ci sono ombre, e io non ho il coraggio di affrontare la giornata.
Quando ero piccola, a casa avevamo un pestacarne con un manico blu elettrico, color vestito da sera di soap opera anni Ottanta.
Ogni sera vado a letto con quel pestacarne sul cuore.
Ogni mattina mi sveglio con quel pestacarne sul cuore.

È la morte di mia madre, certo.
Ma è la mia vita a essere sotto bradisismo, dalla più piccola delle inezie (come mi trucco?) alla più grande delle questioni capitali (sono adatta alla vita?).

Sono combattuta. Ho il diritto di essere in crisi, oppure la crisi è solo un modo per svicolare?
È la crisi che mi sta sabotando, oppure mi sto sabotando e dunque mi invento una crisi?
Sono stanca perché sono stanca, o la stanchezza è un escamotage che fa schermo alla pigrizia?

Non c’è nessuno che con me sia più aspro e poco accogliente di quanto lo sia io.
È quasi sempre stato così, ma fino a poco tempo fa qualcosa stava cambiando.

Vado in cerca del bandolo della matassa, del punto da cui ricominciare, e non lo trovo.
Non so bene da dove ripartire, perché la sfiducia si è mangiata l’entusiasmo.
Non credo che il bene trionferà, non credo che ci sia niente di buono nel «pensiero positivo»; sono convinta che quello che non ho si chiama privilegio, e a volte il privilegio aiuta a non sentirsi in mezzo al mare, lontani da ogni costa.

Invidio chi può.
Ecco.
Detto.
Io mi sento solo impotente, come se niente fosse per me.

Finisco la mia tazza di tè col latte e vado via.
Ci vorrebbe una mamma giovane, in forze, entusiasta. Una che dicesse «vieni qua, riposati e non preoccuparti: ci penso io».