en archè en tò soma

DCF 1.0

DCF 1.0

In principio era il corpo, e non c’è niente da fare.

La tristezza mi sta consumando.
Vado in cerca della gioia, ma niente è puro come dovrebbe.

L’amore non lo è: è carico di tempo che è il tempo della mia vita. Fa i conti con la sfiducia in me stessa, con la malinconia, con la constatazione che esiste una lingua che non si può parlare con la voce.

Non ho mai avuto tanta distanza affettiva dalla parola come in questa fase della mia vita.
La parola non serve, la parola non basta.
La parola può forse aiutare, ma il contesto in cui le è concesso il privilegio di aiutare non è mai stato costruito con le parole.

C’è una lingua che parla solo il corpo.
Arriva un momento in cui ti rendi conto che il corpo è l’unica cosa che hai, e che anche la testa è corpo. Che è corpo perfino il cervello. Che il raziocinio senza corpo non è niente.

Il mio corpo è tutta me, e la supremazia del sentire non ha niente di materialistico.

In questo periodo sto scrivendo cose che si sviluppano l’una sull’altra come le parti di un cavolfiore.

Questa è una. Ha a che vedere con le parole, e con il modo in cui mi sento.

A scuola nuova, la maestra spiegava in classe che Francesca era figlia, lo sapete, bambini?, di un parlamentare democristiano. Francesca si alzava in piedi a ricevere il tributo del suo pubblico di piccoli ossequienti invidiosi.

Federica, invece, lo sapete, bambini?, ha un fratello «spastico», poverina.
Matti a parte – ma di questo si sarebbe presto occupato Basaglia – all’epoca ci accontentavamo di due sole categorie di Bipedi Imperfetti: gli «spastici», eccoli lì, e i «mongoloidi».

L’ampliamento della tavola della nomenclatura riflette la nostra idea recente che le parole fanno male, e che bisogna trovarne di sterilizzate e di inoffensive.

A me è sempre sembrato che quando un nome nega una realtà, là si compie una violenza.
All’epoca la questione era abbastanza semplificata. Le categorie erano poche: «normale» e «anormale»; esisteva ancora la variante «sub-normale», è vero, ma già tendeva a passare di moda.

Mio fratello non era «normale», per esempio.
E quando qualcuno pretendeva di definirlo «normale» come per pagargli un tributo speciale d’onore, a me sembrava che negasse la sua realtà e che non la volesse vedere perché non sapeva sostenere il peso di quella realtà.
Mi arrabbiavo, ma non avevo abbastanza parole né abbastanza autorevolezza per dirlo. Le cose mi si presentavano percettivamente chiare, ma difficilissime da spiegare. Mi hanno sempre insegnato che si parla solo quando si è titolati a farlo.

In classe, il copione non prevedeva la possibilità che anch’io mi alzassi in piedi come Francesca a raccogliere l’ovazione dei compagni; e così, siccome questa cosa si ripeteva, capii che se accettavo di restar seduta e di abbassare un pochino la testa suscitavo una meravigliosa reazione di non saprei quale sentimento molto opportuno.

L’idea era che la mia poverinità™ meritasse una qualche forma di deferente, distante e silenzioso rispetto.
A Federica non si domanda niente: sarebbe maleducazione; né ci si avvicina abbastanza da rimaner contagiati.

Ai tempi delle mie elementari – ma anche delle mie medie – c’era ancora chi credeva che la sventura lavorasse come un virus: tant’è che, per esempio, la signora che insieme al marito e ai due bambini abitava nell’appartamento sotto al nostro cambiò casa e si spostò di duecento metri perché – venimmo poi a sapere – rimase incinta del terzo figlio e aveva paura che la vista quotidiana di mio fratello mettesse in pericolo la sanità della piccola che sarebbe nata. Il raggio massimo dell’area a rischio di contagio non era poi neanche così lungo.

[…]

Davanti al portone di casa mia, ogni pomeriggio i bambini giocavano in gruppo. La finestra della nostra cucina – come quelle del soggiorno, della mia stanza e della sala – sporgeva proprio lì.

Mia madre sentiva la vocine dei piccoli, guardava mio fratello sul materassino e piangeva. Lei era una che conosceva il segreto alchemico per trasformare la natura delle lacrime: molto più spesso in rabbia che in rassegnazione.

Un giorno la vidi affacciarsi alla finestra. Giù a giocare c’ero anch’io.
«Voi», urlò dalla finestra della cucina.
I bambini alzarono tutti la testa.
«Voi, sì», disse lei.

Mi sentivo morire. Sapevo già cosa sarebbe successo dopo che mia madre avesse parlato.
Non so se sarò mai in grado di perdonare tutti quelli che nella mia vita hanno tentato di farmi credere che lei fosse una povera pazza che non conosceva il senso della misura; una povera pazza del sud, poi: che mostruosa aggravante.

Sapere, e sentire, come la vedevano da fuori mi ha costretta a fare un gran lavoro.
Dovevo vagliare senza pietà quello che lei faceva e quello che lei diceva; usare il bisturi per separare le cose giuste da quelle sbagliate.
Dovevo capire da che parte stare, mi pareva di averne il dovere.

È per questo che sono diventata capace di ponderare e giustificare qualunque mia opinione, e di averne sempre di personali.

Prendere posizione, d’altra parte, non è un’attitudine politica o razionale, ma sentimentale: nasce in conseguenza del bisogno di un bambino di comprendere una madre, e di difenderla con solidità di argomenti.

«Voi bambini che quando passa mio figlio vi dividete in due ali, come il mare al passaggio di Mosè», disse mia madre dalla finestra.
Questa era lei: tu non capisci? Non sai di Mosè e del mare che si divide? Male. Dovresti capire.

[…]

«Voi che quando passa mio figlio vi dividete in due ali, come il mare al passaggio di Mosè e smettete di parlare. Voi che quando passa lui fate subito silenzio».
Dalle finestre cominciavano ad affacciarsi le altre mamme.
«È un bambino anche lui: avete capito? È come voi: avete capito? E perché non giocate mai con lui? Perché?».

Quando la vidi rientrare capii subito che immediatamente dopo avrebbe pianto.

Le donne alle finestre mormoravano.
I bambini si guardavano sgomenti l’uno con l’altro, e poi guardavano me con un’espressione smarrita di sufficienza e di compatimento. Ma come fai, con una madre così? E io mi sentivo, allo stesso tempo, umiliata e smisuratamente fiera.

Ecco: prendere posizione non è un’attitudine razionale, ma nasce in conseguenza del bisogno di un bambino di comprendere e di difendere una madre.
Ma con la madre non c’è una relazione nata con le parole. Tutto quello che di più vero esiste fra un figlio e una madre è il legame del corpo e della carne, il legame delle cose non dette ma vissute.

Senza corpo non c’è relazione che renda possibile la parola.
È la carne che si fa parola; non viceversa.

Come scriveva Erri De Luca in Non ora, non qui,

Il male che mi insegnavi a riconoscere, io lo vedevo causato dalle persone. Mi sorvegliavo per non procurarlo, perché anche un rossore risparmiato a un altro fa parte delle proprie responsabilità. Non tutti ebbero una madre che spiegava il male.

Io questa fortuna l’ho avuta.
Per me il corpo di mia madre c’è sempre stato.
È sempre stato fonte primaria di conoscenza e di apertura.
La parola arrivava dopo, e senza quel corpo sarebbe stata una parola vuota oppure ambigua.
Che saldezza, che solidità, quel contatto.

Adesso io sento che il mio corpo è l’unica guida di cui mi posso fidare, e sono stanca delle parole.
Mi fido solo di lui, e non lo sto trattando bene.