i 13 ottobri di rosa

13908826_1325540857456406_4370556190804188644_oOggi, mia madre è sempre stata felice.
Da quando sono nata io fino all’anno scorso, il 13 ottobre mia madre è sempre stata felice.

Per molti anni mi ha fatto arrivare un mazzo di fiori con un biglietto pieno di parole affettuose.
Ho ricevuto molti più fiori da mia madre che da qualunque uomo.

Mi diceva sempre che era così contenta, quando mi vide per la prima volta.
Veramente – mi raccontava – «il mio primo pensiero fu ‘ma io ho fatto tutta questa fatica per questa bambina così brutta?’».
Avevo la testina tutta deformata perché mi avevano fatto nascere con la ventosa.
In pochi minuti, però, me la rimisero a posto facendola tornare tonda, e mia madre decise che la fatica era valsa la pena.

L’ostetrica che l’assisté era la madre di mio padre.
Mia nonna – che si chiamava Elvira Agosti ma veniva chiamata da tutti Lucia (più precisamente, «Cia») – non aveva nessuna simpatia per mia madre, che invece aveva il difetto di aspettarsi sempre di essere amata.

Poi aveva capito che con mia nonna non sarebbe stato possibile, e siccome lo aveva capito abbastanza in fretta, il suo fu un parto un po’ speciale.

Fu un parto brevissimo – e questo vabbè, questo era uno dei tanti elementi per i quali la mia nascita era stata per lei un evento felice e speciale, da tramandare ai posteri come una leggenda che mi ha sempre fatto pensare quanto io sia stata voluta e protetta dalle stelle (vabbè, più o meno) – un parto alcolico-fascista, e fu anche, in un certo senso, un parto «tessile».

«Quella mattina», mi ha raccontato mia madre mille e mille volte, «si ruppero le acque mentre mi alzavo dal letto. Allora riempii la vasca e mi feci un bagno – dopo tua nonna me ne disse di tutti i colori – e poi lavai a mano lo scendiletto che si era bagnato».

Nel frattempo, venne mandata a prendere la Cia, che ordinò a mio padre – come al solito, lui ubbidì – di andare regolarmente al lavoro, ché avrebbe pensato a tutto lei.

Vedendo che le contrazioni non erano ancora arrivate, diede da bere a mia madre un bicchierone di birra mescolata a olio di ricino.
Questa storia della birra l’ho sentita centinaia di volte.

Le contrazioni arrivarono immediatamente. Mia madre ne fu sopraffatta e còlta di sorpresa.

Le due – anzi: eravamo in tre – arrivarono in ospedale di corsa, e venti minuti dopo, nel reparto del mitico professor Gianfranco Volpato ad Arzignano, io ero finalmente nata.

«Nonn’t si vulev piazza’ ‘n gopp’ ‘a panza mij pe’ ffa’ cchiù ampress. O professor Volpat allor ascìv ammiez e j’e riss ‘Cia!!! Ea ea staga fèrma che Rosa a ghe a fa da soea’».

Qui, normalmente, mia madre rideva di gioia al pensiero del guerriero Volpato, uno dei pochi esseri umani che l’avevano difesa e avevano preso sul serio le sue paure.

Lei gli aveva detto che non voleva partorire da sola con la Cia, e Volpato non aveva neanche voluto conoscere i motivi.

«Nun mi fec’ manc parla’. Mi riss “ea no a se preòcupa, vegnarò mì, parché quando che na sposa a partorisse el x’è giusto che ea sia tranquiea”».

Mia madre aveva l’abc del vicentino, qualche rudimento elementare. Spesso si cimentava in questi racconti in cui uno parlava il suo dialetto e un altro il dialetto vicentino.

Comunque, come fu come non fu, per non dare a mia nonna la soddisfazione di sentire lei che si lamentava, mia madre fece a brandelli, ingoiandolo, un intero fazzoletto di cotone.

Dopo il parto, quando il primario – che da lei non aveva sentito neanche il più flebile dei lamenti – andò nella stanza le disse:

«Eh, non c’è niente da fare: le donne meridionali *sanno* partorire».

Ogni volta che me lo raccontava, vedevo mia madre combattuta fra l’orgoglio della razza Piave del sud e la furia di chi si sentiva considerata una sorta di giumenta.

Sono contenta che mia madre abbia avuto tanti 13 ottobri.
Sono sempre stati più felici dei 26 gennai, purtroppo.