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01.b – ho ucciso un libro

Avviso: questo è un post smisuratamente lungo.

Mamma mia. Che cosa ho fatto.

La reazione che sento crescere nella mia pancia di minuto in minuto, ora che l’uscita di un libro che ho scritto io diventa una cosa sempre più simile a un dato di fatto che non al sogno sconsiderato che è sempre stato, è questa: mamma mia, che cosa ho fatto. Mi è appena arrivato il pdf della copertina definitiva, e io mi dico: mamma mia, che cosa ho fatto.

Su quest’evento della mia vita – che, comunque andrà, è per sua intrinseca natura qualcosa che modificherà, e l’ha già fatto, la mia percezione di me – ho un cumulo di emozioni così aggrovigliato e intenso da essermi fino ad ora consentita un unico atteggiamento: l’afasia.
Non sono riuscita a dire, a comunicare, a trasmettere la viscosità delle emozioni che questa vicenda ha fatto salire appena al di sotto della pelle.

Mi è stato recentemente ricordato che un giorno dissi di me una cosa di questo tipo: «Io non sono effusiva».
A dispetto dell’apparente – e forse non solo apparente – facilità con la quale mi rendo disponibile ad esprimere le mie idee sulle cose, a buttar fuori la mia opinione sul mondo, resta che sono estremamente chiusa, anche se io stessa sono la prima a non volerci credere perché vorrei che prevalesse la mia vena «terrona».
Mi piace pensare di essere una persona accogliente e gentile, capace di dare calore. Ma riesco ad esserlo, e nemmeno tutte le volte che vorrei esserlo, solo con le persone che amo. E nei confronti di me stessa, invece, a volte ho un gelo che quando lo guardo da vicino mi fa rabbia, perché mi costringe a tacere di me, a tener dentro quel che sento e quel che mi attraversa.

Leggevo sul sito di Perceber, il libro di Leonardo Colombati, l’enorme quantità di elucubrazioni che – lui partecipe – hanno accompagnato la scelta della copertina del suo primo libro. E la scimmia, e l’alchimista, e lo spagnolo, e il font, e giri di e-mail, e le figurine esoteriche, e il fondo rosso…
A me sono successe cose diverse. Anch’io ho tentato di dire cosa pensavo delle copertine che di volta in volta mi venivano proposte, ma alla fine – vinta dal morbo dell’afasia di cui ho detto – mi convincevo che c’era della gente pagata apposta per insegnare a me quale fosse la copertina più giusta, e che il mio parere veniva richiesto per gentilezza, per prassi, per avallo, ma era quintessenzialmente inessenziale (!).

Così è finita che ho (abbastanza) taciuto sulle cose sostanziali, buttandomi invece sul tecnico (e diventando – immagino – anche un po’ antipatica), senza mai tentare l’azzardo di spiegare cosa mi si muoveva dentro. Senza mai dare agli altri che si stavano occupando di me la possibilità di capire cosa sentivo, e di regolarsi di conseguenza.

Ho giocato, insomma, uno stupido gioco a tenermi fuori dal mio gioco, e a far finta che fosse il gioco di qualcun altro.

Per riuscire a dirsi che non si è egocentrici, questo – va riconosciuto – è un ottimo espediente. E alla fine – dopo molti anni di esercizio necessitato dalle circostanze in cui sono stata bambina, e poi adolescente, e poi ragazza – sono costretta a dire che in effetti non sono egocentrica, e mi dispiace. Non ho un ego smisuratamente grande.
Mi sono abituata così tanto a far venire prima di me altre persone o anche altre cose che adesso mi viene naturale pensare che io vengo comunque dopo, che ci sarà tempo per l’espressione di me, che non c’è fretta, che l’unica mia vera emergenza è rendere la vita accettabile agli altri.

Nel frattempo, però, sto vivendo. E quando me ne rendo conto mi vengono i brividi. Sono sempre sorpresa della gran quantità delle cose che ho fatto: un matrimonio, un figlio, una casa, un lavoro, le amicizie, le chiusure, i begli incontri…

Scrivere un libro è sempre stato un mio sogno.
La madre di un compagno di scuola di mio figlio, saputo da me che avevo scritto una storia che stava per essere pubblicata, mi ha detto «ma sai che anch’io ho sempre avuto il pallino di scrivere un libro?». Per la naturalezza di questa frase io l’ho adorata. Io non avrei mai avuto il coraggio di dire a nessuno al mondo, e probabilmente nemmeno a me stessa, che sognavo di scrivere un libro. Il «pallino», poi. No, il «pallino» non sarei mai riuscita a dirlo. È meraviglioso, penso, riuscire a dire di sé cose tanto profonde con parole così liete e leggere.

E adesso, non so come, il libro l’ho scritto, e sta per uscire. E da quando l’ho scritto sono rimasta in un’apnea afasica fino ad ora.
L’ho scritto di mattina e di notte (di pomeriggio e di sera lavoro), senza avere un’idea precisa della storia che ne sarebbe potuta uscire. Anzi: senza nemmeno sapere che stavo scrivendo un libro, o anche solo una storia che aveva un inizio e una fine.

Ho cominciato a capirlo quando mi sono resa conto che avevo messo al mondo un paio di personaggi e che riuscivo letteralmente, fisicamente a vederli. A vederli agire, a sentirli parlare, a riconoscerne i sentimenti.
È stato bellissimo. Mi sedevo al computer e dicevo: «Bene: che cosa sta facendo Strippo stamattina?». Accendevo l’interruttore emotivo, cambiavo mood, e vedevo che Strippo faceva questo e quello, e diceva questa cosa o l’altra, parlando con Tizio o con Caia.

Per molto tempo avevo chiara solo una cosa: che la storia che volevo raccontare aveva a che fare con il potere, con l’esercizio del potere, con il rapporto delle persone con il potere.
Sono convinta che i confini morali di una persona siano descritti dal suo modo di mettersi in relazione con il potere: il proprio e l’altrui; quello degli individui e quello delle organizzazioni; quello «legittimo» e quello usurpato.
Ogni volta che leggo il testo di Nella mia ora di libertà di quel grande che è Fabrizio De Andrè mi convinco sempre di più che quella frase è mia, è profondamente inestricabilmente dolorosamente e orgogliosamente mia: «Di respirare la stessa aria? di un secondino non mi va,? perciò ho deciso di rinunciare? alla mia ora di libertà. Se c’è qualcosa da spartire ?tra un prigioniero e il suo piantone, ?che non sia l’aria di quel cortile:? voglio soltanto che sia prigione».

Mamma mia. Che cosa ho fatto. Ho scritto un libro nel quale sono uscita allo scoperto. Non ho raccontato la mia vita; non ho raccontato le mie esperienze; non ho scritto cose che mi sono capitate. Eppure mi sono consentita il lusso di uscire allo scoperto, in risposta a un bisogno che sapevo di possedere – certo – ma apparentemente non avevo idea di come esprimere.
Mi dice Giulio Mozzi che quando pubblicò il suo primo libro – cito testualmente – era spaventatissimo (io sono terrorizzata, in effetti). «Poi», dice, «scoprii che anche se parti di me andavano in giro per il mondo, tuttavia nulla mi veniva tolto».

Sì. Sarà così, avrà senz’altro ragione lui. Però io adesso mi sento come in una specie di depressione post partum.
Un pezzo di me è uscito, se n’è andato.
Ed è una cosa in parte simile a una nascita e in parte simile a una morte.
Come un figlio, il libro è uscito da me e io sono altro da lui (no: non è un «esso»; è senza dubbio un «lui»).
Ma a differenza di un figlio, non crescerà, non cambierà; uscendo da me è nato e contemporaneamente è morto, perché si è reso immodificabile, finito, chiuso.

Anzi: sono stata io a renderlo immodificabile, finito e chiuso.
In sostanza, l’ho ucciso io.

Dev’essere per questo che:
a) forse un giallo (noir?) è l’unico libro che in questa fase della mia vita potevo scrivere; e,
b) da quando ho saputo che Due colonne taglio basso sarebbe stato pubblicato ho cominciato a temere che su di me si abbattesse ogni sorta di catastrofe, soprattutto sulla mia salute. Un po’ perché quando si è prossimi alla realizzazione di un sogno (e ancora non si sa quanto difficile sia gestire la realizzazione di un sogno; non si sa, cioè, che si pagherà pegno, com’è giusto, anche lì) si pensa di meritare uno «zot» per avere avuto l’ardire di sfidare gli dei (o anche un dio unico: in questo non c’è differenza fra poli e monoteisti); e un po’ perché, appunto, io ho ucciso.

Ho ucciso un libro. Ma quando l’incubazione (la gravidanza?) è durata così a lungo come nel mio caso (non ho più vent’anni), sgravarsene è rinunciare a – è uccidere – un pezzo enorme di sé.
C’è quasi da ricostruire un’intera identità.

Ho detto «quasi».

questo post appartiene alla categoria «pensieri sparsi»