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03.r – bookybooky.it

Bookybooky.it

Che sia letteratura o genere letterario, che abbia dignità di romanzo o no, è una questione che ormai non pare risolvibile, discussa com’è dalle due parti di litiganti in trincea. Che un giallo però non sia cosa da poco, questo è il terzo che gode, incomodo, sì, ma fuori dubbio. E non molti editori di storie di delitti lo tengono più a mente.

C’è innanzitutto da rispettare una certa estetica. Vero è che Poe aprì il filone con quella Lettera rubata, che è innanzitutto un quadro ricercato, un esercizio di bell’aspetto.
E la forma fisica del giallo è sempre stata molto più elegante del famoso Giallo Mondadori.
Vien quasi il dubbio che sia l’imposizione dello status di economica ad aver traviato il buon corso (letterario) del genere delittuoso.
Perciò quando si sceglie un giallo, non dirigersi verso la ricetta dei buoni consigli caserecci, le sorelle perfettine che in cinque minuti cuociono e mangiano, ma procedere sicuri al dolce perfetto: nella forma invitante, e significativo nel sapore.

Dunque: intanto il vestito, ché il giallo – repetita… – dev’essere un oggetto fascinoso e soprattutto all-terrain: quest’edizione di Sironi è mediterranea, un po’ abbondante, ma classica sexy, pistola lenzuola e rossetto in copertina, niente sangue, né titoli in rilievo, niente shock, solo sussurri.
Ed è agile, morbida. Molto resistente. A smanazzarla non teme fratture, non come certe economiche che flangar-non-flectar e ad aprirle bene fanno crac e i fogli iniziano ad andare dove vogliono.

Si è detto però che la seduzione del corpo non si accontenta della sola copertina.
Dentro l’abito non devono esserci trucchi, sotto la stoffa solo ciccia, niente plastica.
Ricordo: in un delizioso libretto edito dalla Minimum, Patricia Highsmith, la Grande Giallista, offriva consigli su come scrivere un buon giallo.
Molti scrittori non c’hanno risparmiato i loro vademecum, è vero, ma pochi tra questi hanno avuto idee come: due uomini si incontrano sul treno, e durante il viaggio si accordano affinché ciascuno commetta l’omicidio che l’altro non può commettere. Oppure: un uomo bloccato da una frattura su una sedia a rotelle sbircia dalla finestra la vita dei suoi vicini, finché la moglie di quel rappresentante laggiù non sparisce e il rappresentante esce di notte con una valigia molto pesante.
E il nodo su cui si arrovellava la Grande Giallista era sempre lo stesso: come rendo credibili i miei spunti?

Ecco, il difetto di molti gialli è che non lo sono, gialli.
Se la fantascienza si dichiara tale, questi giallacci pretendono di infilare in un tessuto reale avvenimenti, personaggi, coincidenze e avventure davvero non possibili. Il cuore del giallo è il crimine commesso, e se questo non pare realistico l’intero castello di carte (il libro, intendo) crolla su di sé e addio interesse. Ormai girano più assassini seriali di venditori porta-a-porta, e ciascuno ne ammazza almeno tre, e addio plot ben centrato.

E se non sono seriali sono davvero troppo crudeli, o peggio, complicatissimi, noiosi.
Il genere non si ispira più ai libri, ma ai videogiochi, alle serie televisive, a produzioni cinematografiche.
Ne escono telelibri che vorrebbero essere visti, più che letti, e sono avvincenti perché sapientemente gestiti dall’autore, la suspence è accesa ad ogni ultimo paragrafo dall’accenno interrogativo su quello che potrebbe, o sta per, succedere nel capitolo successivo.

E a questo riguardo la trovata di Federica Sgaggio è succulenta: anziché abbindolare il lettore alla fine, lo stuzzica dall’inizio: il titolo del capitolo è la sua ultima riga.
E a contare le virtù dell’autrice di quest’opera prima spunta anche la modestia del mestiere: la Sgaggio parla di ciò che conosce.
In quanto giornalista, i suoi giornalisti sono realistici, come l’ambiente in cui si muovono, i corridoi che percorrono, gli appuntamenti fuori redazione, e realistico è pure il frenetico telefonarsi, scambiarsi accordi, confidenze, i sotterfugi e le manovre oscure.

(Inciso. Leggere questo giallo significa farsi una buona idea di tutto ciò che c’è prima del nostro quotidiano o del nostro telegiornale, e dato che l’informazione è uno dei temi con cui prima o poi ogni cittadino consapevole deve confrontarsi, Due colonne taglio basso è un buon modo per cominciare. Come quando si decide di studiare Picasso e si inizia col guardare i suoi primi quadri).

Un giallo puro, insomma, onesto con il lettore: non ci sono eroi infallibili che leggono la cenere ad occhio nudo; ad investigare sono persone che possiamo immaginare senza sforzo di credulità, tratteggiate senza eccessi, o eccentricità.

Un’asciuttezza che favorisce la suspence, il crescendo di mistero e dramma intorno alla redazione giornalistica il cui direttore è stato ucciso.
E anche il segreto che unisce e separa due dei protagonisti, l’unico vero fatto in-credibile del libro, un segreto davvero terribile, si inserisce nella trama senza fatica, come uno di quegli eventi particolari che normalmente dividono la vita delle persone comuni.

Gli effetti speciali, semmai, la Sgaggio li ha messi tutti nel ritrarre l’assassino, e la normalità con la quale ha dato la morte a un suo simile.
In Due colonne taglio basso c’è il ritratto di una genia di bastardi senza morale alcuna, miseri, non miserabili, che sanno adocchiare i loro consanguinei dalle marche dell’impermiabile che indossi, o dalla stoffa del tuo vestito; persone che sono individui sempre, che non snobbano l’etica, semplicemente la ignorano, non conoscono i finis morali entro il quale ogni uomo dovrebbe muoversi nella società a cui appartiene.

In Due colonne taglio basso c’è l’energia del male banale della Arendt, la furbizia crudele di quegli italiani che calpestano i voti dei cittadini e le debolezze del sistema, i maiali che vogliono tutto presto, senza fatica né galera né iva.

E questo ritratto non è esplicito, Due colonne taglio basso è un giallo e tale resta, non ci sono pagine di denuncia, o j’accuse nascosti o stream of consciousness subliminali: c’è la realtà, che poi è il campo del giornalista, che poi il mestiere di Federica Sgaggio.

Ed è così che questi orrendi personaggi fanno davvero venire i brividi, perché sono gli stessi in cui possono incappare i lettori, quei misogini che fermano la carriera di una donna capace, o che posteggiano il gippone bianco senza badare al passo carrabile, che strillano al cellulare il loro status ed esistono nell’invidia, degli altri o propria.

E proprio come nella realtà, la Sgaggio fa i suoi buoni non immobili di fronte a questi mulini che si credono giganti. I buoni della Sgaggio scovano il male, ne patiscono gli effetti, certo, ma poi si avventano sui cattivi, che saranno potenti quanto vogliono, ma mica si possono permettere di fare tutto, e questa forse è una lezione che la Sgaggio voleva darci, perché risolvere un vero giallo non dev’essere mai una cosa facile, però possibile sì. Il male della società viene sconfitto e l’ordine, o qualcosa di simile, ricomposto.

Una lettura che conquista per la serietà profusa dall’autrice (una qualità che da sola vale l’acquisto del libro) e che soddisfa perché trattiene alla pagina sino alla fine del libro, e anche dopo, a ripensare al giallo, il colore, di quella brutta, moderna verità: ci rendiamo ostaggi, spesso inconsapevolmente, di chi ci usa.