l’inganno identitario

Il 24 maggio, tre giorni fa, Norman G. Finkelstein – anzi: «the controversial jewish professor Norman G. Finkelstein» – è stato bloccato all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv e rispedito ad Amsterdam, città da cui era partito, dopo 24 ore di detenzione in una cella che – racconta al quotidiano israeliano Haaretz – «non era esattamente come un bed and breakfast belga, ma nemmeno come Auschwitz».

Lo Shin Bet (cioè il servizio di intelligence interno israeliano) dice che «gli è stato impedito di accedere a Israele» (dove non potrà entrare per altri dieci anni) «a causa del sospetto che avesse intese con elementi ostili in Libano».
Finkelstein – dice Haaretz – visitò il Libano qualche mese fa, incontrando alcuni operativi di Hezbollah, e ricavandone alcuni articoli. Questo per dire che gli incontri non avvennero in segreto.
A causa delle pressioni delle organizzazioni ebraiche, l’anno scorso Finkelstein dovette abbandonare la sua cattedra alla DePaul University di Chicago.

Ma qual è la sua colpa?
Nel 2000, Finkelstein pubblicò un libro che nella sua versione italiana (Rizzoli, 2002) aveva il titolo «L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».

A pagina 13 c’è scritto: «Il mio interesse nei confronti dell’Olocausto nazista prende le mosse da vicende personali. Mia madre e mio padre erano dei sopravvissuti al ghetto di Varsavia e ai campi di concentramento. Tranne loro, tutti gli altri membri dei due rami della famiglia furono sterminati dai nazisti».
Si può discutere a lungo se essere oggettivamente parte di qualcosa renda più credibili le critiche che a quel qualcosa si rivolgono, o al contrario le privi di oggettività, ma non importa. Finkelstein ha comunque qualcosa da dire, e lo dice.
Si può essere d’accordo oppure no. Ma qualcosa da dire lui ce l’ha: «Mio padre e mia madre», si legge a pagina 15, «si chiesero spesso perché m’indignassi di fronte alla falsificazione e allo sfruttamento del genocidio perpetrato dai nazisti. La risposta più ovvia è che è stato usato per giustificare la politica criminale dello Stato d’Israele e il sostegno americano a tale politica. Ma c’è anche un motivo personale. Ho infatti a cuore che si conservi la memoria della persecuzione della mia famiglia. L’attuale campagna dell’industria dell’Olocausto per estorcere denaro all’Europa in nome delle “vittime bisognose dell’Olocausto” ha ridotto la struttura morale del loro martirio a quella di un casinò di Montecarlo. (…) Di fronte alle sofferenze degli afroamericani, dei vietnamiti e dei palestinesi, il credo di mia madre fu sempre: siamo tutti vittime dell’Olocausto».

Eccola, dunque, la sua colpa: non solo avere sottoposto a revisione critica l’«unicità» del martirio ebraico e aver legato la questione ebraica alla politica americana, ma anche aver detto questo: «La politica dell’identità e l’Olocausto hanno fatto presa tra gli ebrei americani non in virtù del loro status di vittime, ma proprio perché essi non sono vittime»; e questo: «Evocare l’Olocausto era uno stratagemma per delegittimare ogni critica nei confronti degli ebrei»; e anche questo: «“Se tutti quelli che pretendono di essere dei sopravvissuti” (e perciò chiedono un risarcimento, ndr) “lo fossero davvero”, inveiva mia madre, “Hitler chi avrebbe ammazzato?”».

A me sembra che una delle cose più importanti che questa piccola storia ci può dire è questa: che l’identità è un tema delicatissimo. Tanto quando si riferisce ai singoli quanto quando si riferisce alle collettività.
Al di fuori di un bisogno di differenziazione di sé dall’altro non si dà identità possibile.
Questo implica, mi sembra, che il concetto di «identità» è per sua natura antagonistico se non addirittura conflittuale.
Fino a che consente la difesa di sé da un’aggressione assimilatoria (come quella dei genitori con i figli, per esempio) o al contrario liquidatoria (come quella dei nazisti con gli ebrei, ma – voglio ricordarlo – anche contro gli handicappati, gli zingari, gli omosessuali e i comunisti), l’identità costruisce senso. Senso di sé, intendo. Senso della propria individualità, personale o collettiva.
Ma quando sull’identità si conforma una «politica» individuale o collettiva che aggredisce l’altro (o meglio: quando aggredire l’altro è il mezzo che si sceglie per costruirsi un’identità e scacciare la paura di non averne una), allora si demolisce il senso dell’altro e le conseguenze – di questi tempi – sono di questo genere, credo: o si viene messi in una cella dell’aeroporto Ben Gurion e allontanati da Israele per dieci anni (non so: mi sembra una sorta di punizione dal sapore biblico più che politico), oppure si aggrediscono i rom, gli stranieri, gli omosessuali, come sta succedendo giusto adesso (e si sterminano gli ebrei, com’ è successo nella seconda guerra mondiale).

Di attaccare gli handicappati non c’è più nessun bisogno: quelli che non sono in grado di badare a se stessi e magari non sono nemmeno in condizione di percepirsi come portatori di un’identità collettiva li abbiamo già sistemati al di fuori della nostra vita. Negli istituti. Come dice Finkelstein, «non un bed and breakfast belga» (chissà poi cos’hanno i b&b belgi), «ma nemmeno Auschwitz».

p.s. Sull’Irish Independent leggo che un consulente di politica estera di Barack Obama – e mica un consulente qualsiasi: Zbigniew Brzezinski – accusa di maccartismo i componenti dell’establishment degli ebrei americani, a causa della loro disposizione intollerante alle critiche rivolte a Israele. Brzezinski dice addirittura che «negli Stati Uniti la lobby pro Israele è troppo potente», e che «con automatica prontezza chiunque tiri in ballo il potere di quella lobby viene tacciato di antisemitismo». Ma se l’ottantenne politico a cui si deve la firma degli accordi di Camp David del 1978 volesse entrare in Israele, riuscirebbe a farlo, ora?