si scrive «olimpiadi a test», si legge «passione»

Apri il libro a caso, ti trovi a pagina 63, ed eccoti di fronte a una domanda così (per inciso: la numero 13, il mio numero fortunato): «Vinse, rivinse e stravinse. Per lei diciotto medaglie olimpiche di cui nove d’oro e uno strapotere schiacciante, durato un’intera epoca. Di chi si tratta?».
Niente paura, l’«aiutino» c’è. Ed è qui che esce il Facchini.
Il quale – sant’uomo – ti dà da scegliere fra Larisa Latynina, Olga Fikotova, Raissa Gorbaciova e Galina Sbatilova.

Posto che io non so praticamente niente di Olimpiadi né di medaglie ma quattro acche di esteri me le ricordo, escludo subito Raissa Gorbaciova ma anche Galina Sbatilova, che sa di amabile – e gastronomica – presa per il cu**. Giro pagina, e il Fac mi spiega che è la stra-medagliata è Larisa, che «oggi vive poco fuori Mosca con la famiglia, con i figli e i nipotini». Che bel quadretto.

«Le Olimpiadi a test» è il secondo libro di Francesco Facchini, che ha già scritto – e sempre per la Alpha Test – il fortunato «Il calcio a test»; la logica è la stessa: domande, possibili risposte, soluzioni.

Ma il fatto è che, a parte le notizie che ci sono dentro, quel che capisci leggendo è che lui, raccontandoti di Michael Burton o della tragedia di Alberto Braglia, o di Leon Stukelj (che «sembra il nome di un giocatore di basket o di una riserva della Triestina», scrive), sta veramente nuotando nel suo elemento, sta facendo una cosa che gli piace, si sta lasciando portare dalla deliziosa corrente della sua passione.

Ora. Sarà anche un libro divulgativo, il suo (questo come il precedente, quello dedicato al calcio): ma per favore nessuno dica che i libri divulgativi non sono parenti stretti dei romanzi; soprattutto quando – come questo – non c’entrano un bel niente con la retorica.

Questo è un libro che ha l’aria di essere la realizzazione di un sogno.
Dentro, ci sono amore e allegria, e anche compassione. Intendo dire che te lo vedi bambino, Francesco, a compulsare libri e giornali, a consumare album di figurine fino a renderne le pagine opache, a piegare la testolina verso l’alto, in cerca degli occhi di un adulto a cui chiedere qualcosa che c’entrava – chissà mai – con Johnny Weismuller o col perché lo stadio si chiama stadio (nel libro c’è la risposta).

Così, quando alla fine dell’introduzione si trova la frase «ora vado verso Pechino. Un abbraccio», chi legge si sente abbracciato davvero.
Ma solo ed esclusivamente se prima si è tolto la cravatta – o i tacchi – si è seduto comodo, e si è consentito l’enorme, meraviglioso privilegio di tornare bambino.

p.s. Mio figlio mi vede sfogliare il libro e mi chiede: «Hai visto che bella battuta in quella vignetta?». Sì, l’ho vista: un arbitro di boxe che guarda volteggiare per aria i pugili e dice a se stesso «È l’ultima volta che arbitro i pesi piuma». Le vignette – carinissime – sono di Giovanni Vannini.