morucci, dio, l’università e i tribunali


Non sarebbe stata una lezione; nemmeno una lectio magistralis; né l’inaugurazione dell’anno accademico, così come pezzi di Sapienza (intendo l’università) avevano chiesto al papa (per gli smemorati: la differenza stava qui, nel fatto che si trattasse dell’inaugurazione dell’anno accademico, atto ufficiale con il quale si «dà la linea» della ricerca. Sarebbe stato come chiedere a Obama di fare il discorso di fine anno a reti unificate al posto del presidente della Repubblica. Né regge l’argomento che la Sapienza era stata fondata dalla chiesa, perché ormai non è – non sarebbe – più un’istituzione religiosa).

È che questo desiderio di essere ortodossi, di fissare i paletti dell’accettabile, della norma, della regolarità; il bisogno spasmodico di sentirsi «a posto», in linea, «corretti», proni a ogni refolo dell’Aria Che Tira, beh, questo elogio dell’«allineati e coperti» è una delle più tristi prove del fatto che lo spirito critico è stato raso al suolo.

Le esperienze degli altri non possono più nemmeno suscitare curiosità, o interesse umano, o attenzione di carattere – come posso dire? – storico-antropologico, o anche solo genericamente cultural-documentario.

Neanche quando – come nel caso di Morucci – sono così estreme e controverse che ascoltarle significherebbe essere messi in condizione di riflettere, di interrogarsi, di aprire testa e cuore.
Non è che ascoltare Morucci adesso significhi dargli ragione per allora.
Non è che ascoltarlo significhi assolverlo.
Chi giudica, assolve o condanna non siamo noi, che al massimo abbiamo opinioni anche radicate che nessuno comunque ci può togliere per il solo fatto di fare un’azione con esse opinioni contrastante; sono i tribunali, la storia; per chi ci crede, è dio, un dio qualunque.

Perché abbiamo tutti questo estremo bisogno di allinearci ai tribunali culturalmente vincenti?
Perché dobbiamo guardare alla vita e alle sue cose con l’occhio miope e stanco di chi deve ripetere compulsivamente il verdetto di chi ha vinto?