confesso che ho sognato/2

Una grande piazza circondata da edifici con dignità artistica ma anche da palazzi anni Sessanta.

In mezzo, ciò che sembra una specie di piscina.

Dovrebbe essere piccola, una vasca di fontana, e invece è veramente grande come una piscina, e forse pure di più.
L’acqua è sorprendentemente chiara e trasparente, come se non ci fossero né cloro né particelle opacizzanti in sospensione.

Un uomo e io siamo soli, anche se probabilmente per la strada alle nostre spalle, intorno alla piscina-fontana continuano a girare le automobili.
Siamo seduti sul bordo, con i piedi immersi nell’acqua fino al polpaccio.
Chiacchieriamo e muoviamo i piedi avanti e indietro.

Fino a poco prima eravamo stati al mare, in una baia di acqua chiara con spiagge sabbiose, davanti a un mare aperto ingombro di imbarcazioni, persone che nuotavano, piccole isole, e forse anche animali marini di cui non avevamo paura.

Eravamo ospiti di un albergo che si affacciava su una strada tutta curve.
Poteva essere la Liguria, o la costiera amalfitana, ma in realtà non so perché io sapevo che era una qualche improbabile strada tortuosa del sudest asiatico. Che è un luogo che mi stordisce di malinconia.
Avevamo fatto il bagno, guardando la gente che nuotava e l’acqua azzurra che ci circondava.

Ho sempre amato il mare, il suo senso di immensità, il suo rumore: però in questo sogno il mare non rappresentava l’enormità sconfinata della possibile bellezza. Era un posto sovrappopolato. Mi dava fastidio che non fosse solo per me, com’è invece sempre è stato il mare.

Comunque.
Avevamo i piedi e i polpacci immersi in questa piscina che avrebbe dovuto essere la vasca di una fontana e invece era grande come e più di una piscina, e quasi quadrata.

Eravamo a Roma.
Guardando giù, verso il fondale che si presenta nitidissimo, insieme a un’enorme quantità di cartine, di frammenti di cose che qualcuno aveva lasciato cadere, ci rendiamo conto che sott’acqua c’è un uomo.

È un uomo in piedi, si sta muovendo senza concitazione accanto alla propria postazione di lavoro.
Una scrivania con carte e computer.
Lui è biondo, alto, sottile.
Porta la coda.
È un ragazzo vestito in giacca blu e cravatta.

L’uomo e io sembriamo non provare grande sorpresa. È come se avessimo trovato conferma a ciò che avevamo sempre saputo: che sott’acqua si vive, che c’è un mondo sott’acqua.

Mi sono svegliata.