un prete

«Dio lo ha provato e l’ha trovato degno di sé. Lo ha saggiato come oro nel crogiolo e lo ha gradito come un olocausto».
Questa è stata la prima frase che il primicerio della collegiata di San Michele Arcangelo di Solofra (Avellino), dove s’è tenuta la seconda cerimonia funebre per mio zio (è il paese della famiglia di mia madre; l’altro funerale era stato ad Arzignano, dove viveva, il giorno prima).
Sì, capisco che è un estratto rivisitato dal libro della sapienza, e che questo dovrebbe bastarmi.
Ma non mi basta.
Tutti, a un certo punto, gli piaciamo così tanto da esser presi come olocausto.

L’ha chiamato «dottore».
Ha detto: «Siamo qui per dare l’estremo saluto al dottor Ics Ipsilon».
Come se Totò non avesse mai scritto «‘A livella».

Se qualcuno tentava di andare ad abbracciare la moglie e il figlio, lui, il primicerio, diceva piccato «non si interrompe la cerimonia». Ma la stava interrompendo lui con le sue parole, non le persone che pensavano di poter abbracciare due corpi spezzati.

A mia zia e a mio cugino non ha detto una sola parola di conforto.
Nemmeno s’è fatto dire i loro nomi.
Camminava sull’altare come una figurina oleografica di prim’attrice autoritaria, concentrata sulla dimensione recitativa, apparente, pubblica; incapace di pensare che al mondo possa esistere qualcuno che non sia impressionato dalla sua abilità affabulatoria, dalla sua capacità di abitare lo spazio liturgico, dalla sua «professionalità» che l’età non ha corrotto.

Incapace di qualunque empatia, quell’uomo ha dato esatta misura della sua indisponibilità a fare ciò che a me sembra la competenza minima di base di un religioso: accettare la responsabilità di dare senso e accoglienza al dolore degli altri.

Se a mio zio, da là dentro, sotto la sciarpa dell’Inter, sono rimasti un po’ del suo sarcasmo feroce e della sua furiosa capacità di indignazione, sono certa che sta ancora ridendo di compatimento e contemporaneamente scuotendo la testa per la repulsione.