la vedo da dietro

Vedo una donna che cammina.
Ogni tanto alza la testa.
Ogni tanto si ricorda che deve alzare la testa, abbassare le spalle, rilassarle; che deve tirare gli addominali; che il piede va messo a terra tutto, e non solo la parte esterna.

La vedo che cammina non troppo veloce.
So che sta pensando intensamente a qualcosa.

No, è sbagliato.
Sta pensando contemporaneamente a mille cose, e la grande quantità di queste cose la mette in ansia, perché corrisponde a qualcosa che ritiene avrebbe dovuto fare e non ha ancora fatto.

La vedo da dietro, e mi sembra bella.
Mi sembra che cammini bene, e che nella sua postura – anche quando si dimentica di come dovrebbe essere – ci sia la grazia della fiducia nel futuro.

Non è una ragazza, ma non è nemmeno una donna di mezza età. Lo sa, si sente esattamente come una che non sa cos’è. Riesce a definirsi per quello che non è, ma ha un’idea molto chiara di se stessa.
Il fatto è che si vede da dentro, e le categorie che abbracciano quel che vede da dentro non corrispondono a quelle che usa per incastonare quel che vede da fuori.

Cammina, va avanti, e cerca di tenere la testa alta.

Sa che ci sono cose che deve fare, sa che ci sono cose che deve affrontare.
È successo qualcosa, nella sua vita.
Apparentemente, niente di cruciale.
Eppure, qualcosa l’ha cambiata per sempre.

Se uno volesse capire quali sono queste cose diverse, potrebbe anche fare un po’ di fatica.
La cosa che è cambiata di più è che se c’è qualcuno che fa fatica a capirla a lei non interessa più niente.
(Basse, le spalle. Rilassale).

Non le importa di chi non capisce, di chi non c’è perché non sa farlo o non vuole.
Soffre ancora, ma ha deciso che ci sono cose più importanti della sofferenza, e che questo è un privilegio.
È ancora arrabbiata, quando è arrabbiata, ma ha anche deciso che ci sono cose più importanti della rabbia.

Quello a cui non sa passar sopra è la disperazione, forse, che ogni tanto torna.
(Tutto il piede a terra, donna. Un passo dopo l’altro).

È impressionata anche lei – la vedo da dietro, ma lo so – dalla facilità con cui chiude capitoli, prende a martellate definitive ciò che non può essere aggiustato.
Non riesce più a guardare quegli oggetti incollati come i vecchi soprammobili di una famiglia anni Settanta che giudica immorale buttar via i suoi oggettini di ceramica da mensole di salotto.

Non è che sia consumista, che le piaccia comprare per il gusto di comprare; però sente che quando qualcosa è da buttare via qualcosa è da buttar via. Degli oggetti spezzati, rotti; delle relazioni incollate; dell’affetto aggiustato con il Bostik non sa che fare.

Ha una sfida, davanti (Alte, per dio, quelle spalle).
Ma non c’è niente da vincere. O forse sì. C’è da fare quel che lei vuole fare. C’è da prendersi il tempo di essere quel che lei vuole essere. C’è da regalarsi il diritto di dire ‘no, non ce l’ho fatta, pazienza’. C’è da darsi il modo di alzare le spalle se qualcuno si arrabbia per quel che dice lei.

C’è da accettarsi capaci di errori, di sbagli anche grandi.
Va bene, sento che si sta dicendo. Va bene. E allora? Ho sbagliato, sì. E allora?

E allora vedo che fra le sue braccia, appena ai lati dei due gomiti, ci sono dei piedini da una parte e una testolina dall’altra.
Mentre cammina sta cullando qualcuno.
I piedini sono coperti di lana; scarpette di lana rosa.
La testolina ha un berretto pesante.
E lei culla.

Cammina.
Piange.
Cammina.
Pensa alla pelliccia di visone che hanno rubato alla suocera. Pensa alla suocera che ripeteva ‘mi hanno rubato il cappotto’, e che nessuno le credeva.
Però sorride un po’ alla bambina.

Piange e ride per cose da bambini piccoli.

Ha paura, è terrorizzata dalla libertà di fare, dalla libertà di fallire.
Ha paura che qualcosa la porti via, lontano, a soffrire.

Fino a che soffriva tutti i santi giorni pensava che tutto sommato poteva andare bene così, perché la sua dose di dolore se la stava vivendo, e si sa bene che dio vuole che ciascuno si tenga impegnato con la sua dose di dolore.

Ora ha paura lo stesso, e di più.
Non soffre tutti i giorni, e si sta riconoscendo il diritto di vivere.
Dunque, il fulmine di dio è in agguato.

Magari dio non è così, ma lei lo vive così. (Dritta, quella schiena).
Dio non è un amico, dio le fa paura, dio sa cose che lei non sa, dio sa tutto di lei anche se non esiste e questa cosa lei non la può tollerare, perché è come quando da bambina faceva una cosa sbagliata e anche se riusciva a passarla liscia piangeva nel letto, la sera, pensando che dio avrebbe trovato il modo di punirla.

La vedo da dietro, e capisco che la vita l’ha punita abbastanza; ma che per adesso ha ancora forza, e sole, e energia.

La vedo da dietro, e vorrei correre ad abbracciarla per dirle ‘io sono con te’.

Ma se mi avvicino non c’è più.
E io voglio che lei ci sia. Forse è un personaggio.

Oh.
Ha girato l’angolo.
L’ho persa di vista.
Corro.

È diventata un uomo, forse. Forse è quell’uomo là col giaccone chiaro. Quell’uomo con il sedere sporgente.

Io continuo a seguirla.