il dolore del mobbing

(Sto progettando un’iniziativa che spero di poter realizzare, con il supporto di altri professionisti, in tempi brevi. Vi tengo aggiornati, comunque. Giovedì 15 maggio alle 20.45 ne parlerò a Verona, nella sede di Sel in via Oberdan 14 al primo piano, dove chiacchiererò anche di informazione, libertà di stampa, potere, controllo dei giornalisti.
Per adesso, se viva, leggete queste cose a proposito di mobbing)
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[ La traduzione è mia; la versione originale è in fondo]

Foto 49Da mobbing.ca, sito canadese antimobbing.

«Quando si rendono conto che un intero gruppo di colleghi decide di ostracizzarli, gli “obiettivi” cominciano un percorso a fasi, allo stesso modo di qualunque altra vittima.
E la negazione è una di queste fasi.

«Poi, può succedere che i “target” prendano a diventare consapevoli di ciò che sta accadendo, e entrare in una fase nella quale cominciano ad opporsi e a combattere.
Ma in uno scenario di mobbing, così come in molti casi di stupro, opporsi e combattere è controproducente.

In realtà, dà al mobbing solamente altro carburante da bruciare: colui che del mobbing è responsabile detiene infatti potere e controllo assoluti sulla vittima – il potere di umiliarla, privarla della dignità, tormentarla e degradarne la credibilità, lasciandole i segni addosso per sempre.

Un attacco catalogabile come mobbing, quando una persona ha sviluppato una vera patologia, condivide molte somiglianze con il processo di vittimizzazione che avviene in un caso di stupro.
E questa percezione di sé come vittima, questo danno inflitto all’anima, a malapena si riesce a descriverli con parole chiare e coerenti.

Il sopravvissuto non potrà mai più vivere come se l’offesa non fosse mai avvenuta; una volta che il danno è stato inflitto; l’unica possibilità che esiste è che la vittima ne accetti l’esistenza.

Dal momento che è diventata una persona così sconfitta, diffamata, ridicolizzata e poi assegnata a compiti lavorativi inappropriati, è la vittima ad apparire come la persona che se ne deve andare. Paradossalmente, per qualche strano sortilegio è la vittima che sembra essere diventata la causa; è la vittima che ha attirato il mobbing su di sé, ha meritato di essere trattata male, o è – semplicemente – un’incapace.

I colleghi-osservatori («bystanders») non sono in grado di capire quanto potere hanno su colui che esercita il mobbing. Ma i «bystanders» lasciano che la paura abbia il sopravvento, e stanno zitti.
La verità è che in molti casi ciò di cui il «mobbizzatore» ha più paura è il fatto di essere beccato; o anche che il suo comportamento viene premiato (nel quadro di una politica di taglio dei costi e di induzione della paura nei lavoratori, di modo da spingerli a maggiore produttività).

Quando la vittima solleva il problema, il management e gli altri le rendono le cose perfino peggiori, individuandola come una persona «difficile», come «il» problema, per il fatto che ha portato allo scoperto la consapevolezza della questione.
[…] Questo consente al «mobbizzatore» di esercitare come un re il potere incontrastato di tormentare ancora più liberamente la sua vittima, nella piena consapevolezza che non patirà alcuna ripercussione a causa del suo comportamento.

È fondamentale dedicare del tempo al processo di guarigione, anche quando siamo persone abituate ad andare a cento all’ora e a fare cento cose allo stesso tempo.
Questo tempo vuoto va dedicato al riposo, al pianto, all’emersione dei sentimenti di rabbia, al disegno, alla lettura, alla scrittura di lettere o a qualunque altra cosa dia sfogo a emozioni tanto a lungo represse.

Molti evitano questa fase, ma in realtà questa fase è importantissima. Se viene saltata, il corpo finirà per rendere manifesti gli effetti fisici di questa enorme tensione, che in qualche modo deve trovare maniera di uscire.

Occorre far sapere alla vittima che sentirsi stanchi e non riuscire a far fronte a ciò a cui precedentemente si faceva fronte è normale. La sensazione di essere esausti e sfiniti sfumerà più velocemente se non la si combatte.

Il dolore per la perdita dell’integrità del proprio sé, della speranza e della fiducia nel mondo e negli altri può occupare mesi o perfino anni.
Dipende da quanto profonde sono le ferite inflitte alla vittima e da quanto a lungo la vittima è stata esposta all’aggressione.

A differenza di ciò che accade con un trauma o un incidente «ordinario» dopo il quale un individuo è chiamato a fare i conti con il superamento di un unico fondamentale evento di importanza decisiva, il mobbing è un trauma continuato: un trauma dopo un trauma dopo un trauma, così complesso e multiforme che la psiche può aver bisogno di anni per destrutturarlo, per non parlare del tempo necessario a fare i conti come si deve con ciascun singolo avvenimento che l’ha composto.

Alcune ricerche hanno dimostrato che una persona su cinque è mobbizzata al lavoro, e che le aziende non fanno assolutamente niente se non tentare di nascondere o «sovrintendere» il fenomeno fino a quando esso non diventa incontrollabile o qualcuno dà di matto sul lavoro.

Le aziende modificheranno le loro strategie di prevenzione del mobbing solo ed esclusivamente quando realizzano che hanno un effettivo dovere nei confronti dei loro dipendenti, a causa della loro responsabilità legale e giudiziaria.

Solo in quel momento cesseranno d colpevolizzare la vittima per avere sottratto all’ufficio della Direzione del personale tempo prezioso con le loro lamentele senza costrutto, e relative a conflitti privati.

Le aziende considerano il mobbing, generalmente, come una faccenda relativa alla produttività.
Spesso prendono di mira la vittima allo stesso modo del «mobbizzatore» se non addirittura di più, e con la loro incapacità di prevenire la violenza emotiva – anche quando sono perfettamente a conoscenza, a volte da lunghi anni, del fatto che una persona è stata/è mobbizzata – causano ferite secondarie a una persona già traumatizzata.

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When targets realize that an entire group of co-workers decides to ostracize them, they begin going through phases – similar to any victim, denial being one of them.

Then targets might become aware about what is happening and beginning a phase where they fight back.
But in a mobbing scenario, like many rape cases, fighting back is to no avail.
In fact, it simply fuels the mobbing: the perpetrator or perpetrators have total power and control over the victim – to humiliate, degrade, harass and defile – leaving them scarred for life.

The bad experience then becomes worse […].

[…]A mobbing injury, once the person has become truly “sick”, shares similarities with rape victimization.
Such victimization and damage to the soul can hardly be explained in a clear, coherent way.

For the survivor, the injury can never, never be reversed; once the damaging experience has happened, eventually the surviving victim has to accept it.

[Since] the target has become so beaten down, defamed, ridiculed and then assigned inappropriate work duties, the target appears as the person who must go. In the oddest way, somehow the target at this point appears to be the cause – that somehow the target brought the mobbing on oneself or deserved the ill treatment or is simply incompetent.

[…] Bystanders really don’t realize the power they hold over the bully. They allow fear to stop them from saying anything. But the truth is that often the bully is more afraid of getting caught than anything else, or is somehow being rewarded for bad behavior (think cost-cutting and fear tactics to get staff to give higher productivity).

[…] management and others often make it worse for the target after a target has complained, singling them out as “difficult” and “the problem” for bringing awareness of the issue up. (Think whistleblower.) This then gives the bully free reign to further harass the target, knowing full well there will be no repercussions to their cruel behavior.

[…] The healing time is crucial, though agonizing for many people who are used to going 100 miles an hour and doing many things. This downtime is about rest, shedding tears, being angry, drawing, reading, writing letters or whatever may help releasing those pent-up emotions. Many will avoid this stage, though it is most crucial. If they don’t do this, the body will eventually start feeling the physical effects of the strain, as it has to come out somehow. Let the target know it’s okay to be tired, to not be able to do what they are used to. This exhaustion will pass quicker if they don’t fight it.

[…] This grieving for their loss of self, trust and faith in the world and others can take months or years. It all depends on how long and how deeply the target was damaged. Unlike a “normal” trauma or incident where one has to get over on crucial life-changing event, bullying is a continued trauma incident after trauma after trauma, so compounded that it can take years for the psyche to pull it all apart let alone deal with each of the incidents properly.

[…] Studies show that 1 in 5 people are bullied at work, and corporations are doing nothing about it except to try and hide or “overlook” it until it’s out of control or someone goes “postal.”
Only when they see they have a real duty to their employees because of legal liability will they change their policies to prevent bullying.
Only then will they stop blaming the victim for taking HR’s valuable time complaining about “non-issues” or “personality conflicts.”
Companies generally only see bullying as a productivity issue.
Often they target the “victim” as much or more than they do the bully, causing secondary wounding to an already traumatized person in failing to prevent the emotional violence, even when they know, sometimes for years, about how the person is being bullied.