bi-sognare

L’altra notte ho fatto un sogno che ricordo ancora molto bene.
Me lo sono portato dentro per tutta la giornata di ieri.

Il direttore di un giornale nazionale importante – nessuno che nel sogno potessi identificare, però – mi chiama a lavorare per la sua testata.
L’uomo si è appassionato al mio lavoro e per darmi la possibilità di restare al giornale con un contratto più solido mi consiglia di partecipare a un concorso su «Altiero Spinelli e l’idea di Europa».

Il vincitore di quel concorso – mi spiega – sarebbe stato assunto dal suo giornale.
La prova consiste in un discorso da tenersi pubblicamente, a un convegno.
La giuria avrebbe scelto il migliore.

Penso a lungo, nel sogno, se studiare davvero Spinelli, se approfondire qualche aspetto specifico.
Vado all’università – d’altra parte il convegno si sarebbe tenuto là: il posto era quello giusto, no? – a cercare testi e notizie; tento di trovare una prospettiva mia con cui guardare al tema.

All’improvviso, mi rendo conto che, in quel preciso momento, a me di Spinelli e dell’idea di Europa non interessa assolutamente niente; e che il tempo è troppo poco per organizzare un intervento secondo una prospettiva personale.

Andare o non andare al convegno, dunque?

Decido di andare.

Nella sala del convegno ci sono donne intailleurate e uomini incravattati.
C’è tutto il milieu della stampa di destra.

Le relazioni dei concorrenti sono noiose e saccenti.

A un certo punto viene il mio turno.

Salgo sul palchetto con il leggio.
Saluto tutti, ringrazio per l’opportunità che mi è stata offerta: cioè dire quello che penso.

«Ho riflettuto a lungo», dico, «se approfondire la materia e cercare un’angolazione personale per guardare al tema del convegno. Ma poi ho pensato che – a essere sincera – a me il tema non interessa, e che non mi interessa nemmeno avere un posto di lavoro attraverso questo sistema del concorso.

«Ho pensato che era giusto che io dessi a me stessa la possibilità di dire schiettamente come la penso.

«E dunque, vorrei dirvi che questo concorso mi sembra una sciocchezza. Sono sicura che a voi di Spinelli e dell’Europa non interessa niente, esattamente come a me.

«Io vi guardo da qui, nei vostri vestiti eleganti e un po’ ridicoli perché non li sapete portare con grazia, tutti fieri di voi stessi e della vostra inautenticità, e penso che non mi piacete per niente, e non mi piacerete mai; penso che i vostri giornali siano orrendi; penso che la vostra idea di giornalismo sia repellente; penso che io non ho assolutamente niente a che vedere con voi, e non voglio né vorrò mai avere niente a che fare con voi nemmeno nel futuro.

«Perciò, vi ringrazio per avermi invitato. Ma io qui non c’entro, e ho fretta di andarmene».

L’uditorio comincia a rumoreggiare, a dirmi cose tremende, a rivolgermi insulti.

Io scendo dal palco e passo vicino al direttore del giornale che mi aveva invitato a partecipare.
Volevo chiedergli scusa.
Lui mi dice: «Certo che se pensavi di farmi fare questa figura di merda sarebbe stato anche carino che tu mi avvisassi».
«Mi dispiace», gli dico. «Non so cosa farci».

Mentre mi avvio fuori dalla sala, però, qualcuno comincia sorprendentemente a dire a voce alta che sono stata coraggiosa, che sono andata a dirgliene quattro giusto a casa loro.
A poco a poco, una alla volta, le persone che guardano agli eventi in questa prospettiva cominciano ad aumentare. Sono sempre di più di minuto in minuto. Ai viriloni di destra, in effetti, questo genere di coraggio può piacere, soprattutto se credono di essere viriloni di destra intelligenti.

Il concorso – e il posto di lavoro – vengono vinti da qualcuno che non ricordo.
Ma intorno a me si fa in breve una folla di direttori di giornali che mi chiedono di scrivere editoriali per loro, per favore, e promettono paghe alte.

Mi sono svegliata.

***

Penso che a un anno dalla morte di mia madre questo sogno mi stia dicendo che non ho più timore delle rappresaglie di chi ha più potere di me. Che adesso il potere su di me è mio.

Pensavo a questo sogno, stamattina, intervistando una persona qui ad Angal, in Uganda.

Sono qui per lavoro, e sto vivendo con grande forza la contraddizione di chi si sente – per estrazione, per storia, per cuore – più vicina alle persone che è chiamata ad «aiutare» (e di virgolette ce ne vorrebbero molte di più) che non a quelle che «aiutano».

Capisco bene che è una stronzata.
Capisco bene che io sono necessariamente privilegiata rispetto a chiunque io incontri qui.

Ma capisco altrettanto bene che le fette in cui io vedo diviso il mondo sono – in senso generale – soltanto due: i poveri (di soldi e di potere) e i ricchi (di soldi e di potere).

La persona che ho intervistato stamattina si chiama Deogratias Ofoyrwoth e ha 29 anni.
È il coordinatore dei progetti sociali della onlus per la quale lavoro, gli Amici di Angal.

Ha una moglie che ha un salone di bellezza dove le donne non possono lavarsi i capelli perché non c’è acqua, ma possono mettere tutti i postiche che vogliono, e tutte le treccine che vogliono, e un ristorante dove riesce a fare da mangiare solo perché ha comperato un unico fornello su cui può posare un’unica pentola alla volta.

Non solo: i due – che hanno tre bambini – organizzano anche spettacoli musicali con gli artisti ugandesi, e vorrebbero mettere insieme uno show che sensibilizzi su alcuni problemi sociali.

Credo che l’intervista con lui sia la più bella esperienza che in fatto di interviste io abbia mai fatto.

Abbiamo parlato di potere e povertà, dunque.
E lui mi ha spiegato che non ha mai pensato che in Europa non esistano i poveri per il solo fatto che qui in Uganda il Paese è, in termini macro, più povero dell’Europa.

Ho pensato agli «scienziati» che occupano le pagine dei nostri giornali con le loro analisi alate: quanta fatica farebbero molti di loro a comprendere un argomento tanto ricco e fecondo; tanto a suo modo eversivo.

In Europa, dunque, i poveri ci sono eccome.
Solo che, diceva Deogratias, tutto dipende dal contesto e dal punto di osservazione.

A Verona io sono in enormi difficoltà.
Ma qui io qui sono ricca; e lascio perdere, intenzionalmente, quanto bene possa fare all’ego di qualcuno, magari, la possibilità di sentirsi ricco, arbitro delle sorti degli «inferiori».

Ieri ho potuto dare a una donna, insieme a un’amica che è qui con me, la cifra che le serviva per pagare il suo parto cesareo: il marito era fuggito col denaro e lei era rimasta con la bambina nella pancia e senza un soldo.
Erano diciotto euro.

Qui, un povero italiano è ricco.
Ma in Italia un povero rimane un povero.
E un povero ugandese è più povero di un povero italiano.

Il volontariato?
È una cosa magnifica, certo.
Ma a modo suo garantisce una più serena perpetuazione delle ingiustizie, delle quali non consente la percezione come di un problema politico.
Riduce tutto a una questione privatistica, da individuo a individui: ma guai se in quella relazione si cercasse di introdurre un elemento politico. I «buoni» spiegherebbero che loro sono al di là della politica, che a loro interessa solo aiutare.

Cionondimeno, ovviamente, «aiutare» ha senso. Anche se finisce per qualificarsi a volte come neocolonialismo, o anche solo come paternalismo (la qual cosa mi risulta – da sorella di disabile – particolarmente insopportabile).

Non ha mai visto un aeroplano, Deogratias, e vorrebbe vederlo.
«Il primo posto dove andrei in Europa è la Gran Bretagna. Dov’è Londra? In Gran Bretagna, vero?Per farmi addormentare, mia madre mi cantava una canzone su Londra. Io sentivo “Lòn-dòn, Lòn-dòn”, e subito mi sognavo a Londra, chiudevo gli occhi ed ero là, anche se non sapevo come immaginarla».

Perché il problema è immaginare; allora Internet non c’era.

«Dell’Europa ci parlavano a scuola, ma potevi solo immaginare, e neanche sapevi cosa immaginare. Io pensavo che l’Italia si esaurisse con Roma, e che passeggiando per Roma ti potesse capitare di incontrare il papa. Ogni informazione che ci arrivava, ci raggiungeva come un’immaginazione, come qualcosa su cui dovevamo costruire un’immaginazione».

Una volta qui ad Angal c’era un’italiana che si chiamava Maddalena.
«Ci faceva giocare. Eravamo sempre felici di vederla. Tornata in Italia, ci spedì una foto di lei in mezzo a tanta gente. Erano in cima a un’altura. Davanti a quell’altura si stendeva una città. E io pensavo: “Se potessi essere in quella città…”».

«Ho sempre avuto sentimenti oscillanti, sull’Europa. A volte pensavo che in Europa avrei potuto trovare tutto quello che alla mia anima mancava. Ma altre volte pensavo che no, che non era così».

E verresti a vivere in Europa?, gli ho chiesto.

«Dipende», ha risposto. «Per andare a vivere in Europa dovrei avere una ragione molto importante. Solo così potrei accettare di rinunciare ai sogni che ho fatto per i miei figli. Mi domanderei “che fine fanno i progetti che ho immaginato per loro?”; “Loro vorrebbero venire oppure no?”; “Distruggerei il loro mondo?”».

Mi è sembrata una risposta sublime.
Nolti di noi europei sono convinti che chiunque verrebbe immediatamente dall’Africa in Europa, e che chiunque venga nel nostro continente sia un usurpatore di risorse che ha scelto la via più breve, quella più comoda.

E invece, un ragazzo ci spiega che per spostarsi da qui avrebbe bisogno di un motivo estremamente serio.
Espatriare è una cosa complessa, e chi espatria lo sa benissimo.

Non siamo così appetibili, non per tutti.

E non tutti pensano che siccome portiamo dei soldi, beh, allora siamo delle regine e degli dèi.
Di noi regine e di noi dèi possono anche apprezzare alcune cose, ma altre appaiono ai loro occhi con estrema nitidezza come manifestazioni di benevolo potere che si compiace della propria pretesamente indiscutibile bontà.

Essere destinatari di benefici è una condizione difficilissima da vivere: ti aiutano, ma ti giudicano; ti aiutano, ma ti chiedono di essere come vogliono loro.

Noi del nord del mondo siamo specializzati.
Aiutiamo, e pretendiamo gratitudine.
Aiutiamo, e continuiamo a dire che «gli africani non sono capaci di governarsi da soli», e che «non hanno la minima idea di come le cose si mantengano in efficienza».

Poveri scemi. Loro non sanno come si fa. Sono un po’ come i terroni, in fondo.

Eppure, basterebbe tenersi abbastanza aperti da lasciarsi sorprendere.
Prima che me la raccontasse Deogratias, per esempio, di questa cosa non sapevo niente.
Ma adesso che la so mi pare una bomba.

«Se io ti portassi su per le colline qui intorno», ha detto, «le persone potrebbero scappare via per lo spavento. Non hanno mai visto un bianco: penserebbero che tu sei una sorta di mostro».

Dunque – gli ho chiesto – nelle vostre favole il mostro è l’uomo bianco?

«Oh, no! Anche nelle nostre favole il mostro è l’uomo nero. Le nostre madri ci insegnano ad avere paura dell’uomo nero come le vostre».