l’eterno presente dell’handicap

Non ne avrei scritto, se non ne fossi stata indirettamente sollecitata dalla rapidità con cui ho sentito molte persone giudicare «strappacuore» questa notizia che arriva dalla Sardegna: una ventiquattrenne con problemi – viene detto – «di sviluppo» estromessa dall’asilo nel quale da tempo si trovava perfettamente a suo agio.

Io non conosco la situazione della ragazza e dei suoi genitori, e dunque – lo dico non retoricamente – posso sbagliare.
Anche se nel settore handicap ho una ragguardevole anzianità di militanza, so molto bene che la mia è un’altra esperienza, e che da quest’esperienza non posso ricavare massime o ricette universali, e nemmeno estensibili a comunità ben più piccole di quanto non sia l’universo.

Però vorrei solo dire che anche un handicappato, perfino un handicappato, ha il diritto e il dovere di crescere, con tutte le difficoltà e le resistenze che questo comporta.
Ha il diritto, credo, e il dovere di prendere atto che a dispetto dell’età che gli viene riconosciuta egli ha un’autentica e inconfutabile età anagrafica. Anche se la sua apparenza è quella di un bambino.
E che a un handicappato non c’è alcun modo di evitare il dolore di vivere, solo perché è handicappato. Quel dolore lo deve attraversare comunque, esattamente come tutti noi. La sua esistenza non è una successione di istanti che vivono solo nel presente: anche la sua è una storia che cambia; anche la sua esistenza è un processo.

Vorrei essere meno tranchant, ma non ci riesco e me ne scuso.