la profondità delle apparenze

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Ieri a inglese, il maestro James – che secondo me è bravo – mi ha fatto sentire un pezzo dell’Importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde: lo scoppiettante, feroce, brillante, surreale e sarcastico «interrogatorio» di Lady Bracknell a Ernest Worthing.

Questo mi ha fatto ricordare una cosa.

Nella casa dove ho vissuto fra il 1996 e l’inizio del 1999, appena al di là della porta d’ingresso, a dividere un minuscolo ingresso dall’ancor più minuscola cucina c’era una specie di paretina-paravento di legno che per motivi oscuri il padrone di casa, resistendo a qualunque ragionevole rimostranza, giudicava bellissima e aveva preteso che rimanesse al suo posto.

Sicché, quel fondale color sughero bruno era la prima cosa che si vedeva nel momento in cui si entrava.
Proprio lì, al posto d’onore, avevo attaccato una specie di posterino dove avevo stampato un fulminante aforisma di Wilde (della Bilancia irlandese Wilde, ricorderei): «Solo i superficiali non giudicano dalle apparenze».

Chiunque pensi che questa frase di Wilde sia una provocazione, un motto arguto o un gioco di parole più bello che vero, secondo me sbaglia in modo grossolano.

Le apparenze son tutto ciò che ci si presenta alla vista.
Per capire cosa sia esattamente quel che abbiamo davanti, in effetti, abbiamo bisogno di connettere tra loro tutti gli «atomi» di esteriorità che riusciamo a individuare, fino a formare una mappa che colloca l’oggetto o la situazione osservata in una topografia decifrabile e «giudicabile».
A me sembra che senza quest’operazione non ci metteremmo realmente in contatto col mondo, ma ci limiteremmo a guardare senza vedere.

Ma non c’è dubbio che per dire tutto questo in due parole ci voleva tutto il genio di Wilde.