cinismo e dolore, parte seconda

Ha ragione Kalle sul suo blog (ma che piacevole scambio di cortesie): il cinismo, l’orribile cinismo che ci rende così difficile la vita in Italia, non è una questione di “carattere italiano”.

Io non so quale sia l’impasto di situazioni che ci conduce a vivere in un Paese in cui chi crede a qualcosa – qualunque cosa – viene considerato un imbecille.
Però, mio dio, è insopportabile.
E’ come se ogni minuto la domanda che ti viene tacitamente fatta fosse questa: ma ci credi davvero?

Non so.
In tv c’è una trasmissione in cui la gente va e racconta le sue storie. Tu la guardi con qualcuno, e quel qualcuno si gira verso di te e ti domanda con grande serietà: “Ma tu ci credi davvero?”.

Oppure: Berlusconi dice “taglieremo le tasse”, e tu pensi “ma questo chi vuole infinocchiare?”.
O il Pd dice: “Non ci divideremo”, e tu dici a te stesso “ma figurati!” (anzi: niente punto esclamativo, perché nell’esclamazione c’è troppo entusiasmo).

O magari sul lavoro dici “Ma non possiamo continuare a scrivere queste cose” – ipotesi, dico per dire – “sui rom…”, e i colleghi ti rispondono “ehi, ma pensi davvero che quel che scrivi abbia un’influenza su quel che la gente pensa?” (salvo poi, collettivamente e individualmente, fare esattamente quel che il potere chiede, ovvio); o anche “ma credi davvero di poter cambiare le cose?” (che poi è una variante sofisticata del chissenefrega, e funziona infinitamente meglio come espediente autoassolutorio, perlomeno tutte le volte che me lo dico io da sola, anche se ne soffro).

E non è – non ci credo – che la nostra storia ci ha abituati a essere fregati, e la nostra attitudine – magari – si chiama non cinismo, ma scetticismo, ovvero semplicemente un’opportuna contromisura.
Non è che siamo stati fregati dal potere, intendo, o dalla burocrazia.
Il potere ce lo siamo creati noi nel modo in cui è adesso, penso.
Non è arrivato da Marte.
Gli uomini politici sono espressione della nostra democrazia, non sono fenomeni di importazione.

Sento il peso di anni, anni e anni di lavoro ai fianchi.
Quel lavoro ai fianchi che serve a farti capire che tu come individuo non conti un accidente, non fai nessuna differenza, non hai nessun potere se non quello di “farti scegliere” come manutengolo da chi ha potere…
Anni così.
Lunghi anni così; lunghi anni spesi a tentare di resistere a ciò a cui resistere si è dimostrato impossibile.
Cristo.

Il mio “diventare adulta” è consistito esattamente in questa presa di coscienza: la presa di coscienza che io non contavo un ca**o.

Non credo di essere la sola ad aver vissuto e a vivere tutto questo.
Credo che a doverci rendere conto che diventare adulti significava adattarsi al dato di fatto che non si conta un cazzo siamo stati in tanti, ma evidentemente non troppi; perlomeno, non in numero sufficiente a produrre un urlo.
Se fossimo stati in tantissimi, quell’urlo l’avremmo sentito.
Ce ne saremmo accorti, credo.
Invece io continuo a sentire il rombo del silenzio.
Quello della gente che sa di non contare un cazzo e le va bene così.

Anni così, comunque.
A disilludersi. A pensare che da bambini, e poi da ragazzini, ci hanno raccontato un sacco di stronzate su quella storia che da grandi avremmo avuto il potere di fare di noi quel che ci sarebbe piaciuto.
Anni a capire, momento dopo momento, che non c’era assolutamente niente che potevamo fare.
Che – anzi – provarci poteva distruggerci; poteva toglierci tutte le energie che erano necessarie a vivere decentemente i nostri sentimenti, le nostre relazioni, le nostre passioni.
Che non c’era spazio per la serietà delle intenzioni, per la profondità delle motivazioni, per il desiderio di cambiare le cose.

E attenzione.
Non cambiare il mondo intero: poche cose.
Nel tempo abbiamo imparato che ci si poteva accontentare di cambiare poche cose, e anche molto piccole.
Ma neanche questo è stato possibile.

Anni così.
Ca**o.
E poi ditemi come ci si sente.
Come ci si sente a vedere che a poco a poco, avendo ridotto la gente a credere di essere impotente, la gente comincia a cercare di mettersi nelle mani di un’unica persona potente, e le dà volentieri il potere di farla sentire impotente perché l’unico titolato a fare qualcosa (e che sollievo!) è quella persona a cui abbiamo lasciato tutto il potere.

E poi, però, ditemi come si sente una persona giovane, magari di quelle che non hanno voglia di vedere Amici o il Grande fratello o di leggere – se proprio sono fini intellettuali – il Giornale o Libero.
Ditemi come si sente un bambino che si percepisce altro da quel che vede, che si vede troppo entusiasta, troppo partecipe, troppo motivato. Un bambino a cui gli adulti e i coetanei rimandano un’immagine di personcina troppo ingenua, stupida, non in linea.
Cristo.
Mi sembra di soffocare.

Fuori piove. Non aiuta.
Torno da Margaret a studiare.
Sarò tutta bagnata, di qui (Palmerston Park, posto stupendo dove le case costano dai due milioni in su) a Dundrum, ma pazienza.
Qui c’avranno anche fiducia nel futuro ma c’hanno anche un casino di pioggia.
Non si può avere tutto.