verona, violenza e «moderazione»

immagine_oleograficaÈ uscito da poco nelle librerie della città – parlo di Verona – il numero di aprile della rivista «Verona in», il cui editore Giorgio Montolli, insieme al giornalista dell’Arena Giancarlo Beltrame, ha raccolto le opinioni di alcuni giornalisti veronesi sul problema della violenza a Verona, a un anno dall’omicidio di Nicola Tommasoli. Il compito era questo: tentare «l’analisi del perché della violenza» e discutere «le prospettive per una Verona a misura d’uomo».
Un compitone.

Tra quei giornalisti c’ero anch’io.
Il testo che segue è quel che ho scritto per la rivista.

«Non capisco perché per una lite a Verona venga sollevata una questione (…) nazionale e se ne parli per mesi, mentre se a Napoli la camorra ammazza (…) una persona (…) i telegiornali ne parlano per un giorno e poi nessuno ne parla più».

Questo, proveniente da un lettore che negli ultimi decenni dev’essersi volentieri spesso distratto, è uno dei commenti comparsi sull’Arena.it dopo l’arresto degli otto accusati di aver picchiato Francesca Ambrosi.

L’automatismo «a Verona succede una cosa brutta, la stampa ne parla, ergo la stampa/il mondo/i cattivi ce l’hanno con Verona» sembra funzionare da più di un secolo.
Apparentemente, sono almeno 143 anni che la città fatica a capire il motivo per il quale esista chi accanitamente si ostina a dare notizia dei fatti (anche) violenti che accadono a Verona. Se non temessi di contravvenire alla prima legge della veronesità – cioè l’understatement, il «volare basso» – mi verrebbe quasi da pensare che la città patisca una specie di mania di persecuzione.
Ma siccome temo di contravvenire alla prima legge della veronesità, non lo dico.

Nel 1866, in ottobre, da Verona vennero cacciati gli Austriaci.
L’evento non fu indolore, e sul terzo numero del quotidiano L’Arena si legge: «La stampa italiana ribocca dei fatti nostri. (…) Le apprezziazioni dei giornalisti (…) ci piovvero addosso come una rampogna (…). Le prime notizie partite da Verona annunciavano all’Europa che (…) i Veronesi trascesero oltre i confini del contegno decente, passarono a vie di fatto contro le i.r. Truppe Austriache, e (…) si abbandonarono agli eccessi del furor popolare. Se fosse vero quanto fu scritto sugli avvenimenti del 5 e 6 ottobre, noi saremmo i primi a chiederne venia. (…) Ma noi siamo ben lungi dal dover chinare il capo; abbiamo invece (…) l’obbligo di non lasciare che la calunnia ci soffochi».

Ma quali sono i fatti a cui così tortuosamente si riferisce il neonato giornale? Sono i torbidi in cui fu uccisa quella Carlotta Aschieri che, incinta, è ricordata nella lapide all’inizio di via Mazzini, dove una volta c’era il caffè Motta.

Alla città non piace affatto che si dica che c’è stata «ammuina»; e meno ancora piace che a storcere il naso sia stato – perbacco – il presidente del Consiglio barone Bettino Ricasoli, autore di un telegramma con il quale – scriverà L’Arena dandone notizia con un certo qual comodo, il 21 ottobre 1866 – la città viene messa in stato d’assedio: «Siamo venuti nel convincimento», scrive il giornale, «che la popolazione fu insultata, provocata, costretta ad uscire dai limiti della moderazione».

«Moderazione» è una parola importante. Segniamocela.

La colpa, già dal 1866, è di qualcun altro. E il problema sta nelle «false informazioni fatte pervenire, forse a disegno», al credulone Ricasoli su un «popolo» invece «per abitudine moderato e tranquillo».

Per dirne un’altra: nel 1921 (anno in cui il 12 aprile L’Arena dà notizia del primo congresso provinciale fascista), il Padova calcio perde in casa dalla Bentegodi, il «proto-Hellas». I padovani menano pugni, e i veronesi rispondono sparando rivoltellate.
Colpa grave?
No: erano «quasi tutte in aria».

Uno potrebbe domandarsi: «Va bene: e cosa c’entra con “l’analisi del perché della violenza” e “le prospettive per una Verona a misura d’uomo”»?
Ci arrivo.
Trascurando il piano dell’analisi dei perché, io sono solo in condizione di raccontare ciò che quotidianamente sperimento.
E cioè che non sono in grado di vedere alcuno spiraglio da cui si possa transitare fino a incontrare una Verona a misura d’uomo.

Verona – e intendo dire le sue donne dai capelli tinti, i suoi uomini scarpati all’inglese, i suoi ragazzi con suv e case al lago, l’orgoglio per il proprio «cattivismo», le sue commesse sempre in tiro (mai passasse per di lì la troupe di un provino tv)… – ha accettato che un’alleanza politica che metteva insieme Lega nord, An, Forza nuova, Fiamma tricolore e chiesa anti-conciliare (spingendo Forza Italia alla minorità matematica e culturale) venisse definita una «coalizione di moderati».
Cosa che evidentemente non poteva essere, e infatti non è stata, almeno agli occhi di chi abbia un ricordo anche vago di cos’è stata la Dc.

Verona è capace di accettare qualunque cosa: omicidi, pestaggi, o – come mi è capitato di vedere in presa diretta – pugni a un ragazzino di colore al grido di «la te piase, eh, la figa bianca?».
Purché nessuno – nemmeno il barone Ricasoli – si sogni di farla «oggetto di biasimo pubblico» per essersi spinta oltre l’argine della «moderazione».
D’altra parte, come disse il sindaco, la gran parte degli aggressori di Tommasoli viene dalla provincia.

Magari è in provincia che sono razzisti. In città no.
E poi – puff – ecco che quel che succede a Verona si allarga in Italia.
Dove, in effetti, la colpa è – circa – dei romeni.
No. Io spiragli non ne vedo, né qui né altrove.