madri, pentole, diavoli, e creme per la faccia

libro_di_patrizia_patelliOkay.
Il libro di Patrizia l’ho finito in meno di tre ore anche se dentro c’è un sacco di roba.
Niente che, a guardar bene, non si possa intravvedere – anche se confusamente, e senza la chiarezza di «Gli ultimi occhi di mia madre» – nello sguardo della sua autrice; nel modo dritto, selvatico e luminoso con cui, più che guardarti in faccia, ti scruta per capire chi sei.

La storia racconta di una madre condannata a muoversi in un’incessante sarabanda del tutto priva – sembrerebbe dire Patrizia, ma temo che sappia benissimo che non è così – di incidenza sentimentale, ma assolutamente decisiva sul piano della concreta conduzione di una famiglia che senza di lei parrebbe destinata a scivolare sul piano inclinato del niente.

La madre è malata, e questa malattia diventa l’unica cosa per la quale la sua identità sopravvive nel mosaico esistenziale di chi l’ama, mentre ogni cosa intorno si decompone nella generale perdita di senso di una vita domestica che ha smesso di domandarsi se e a cosa possa mai servire il calore di una pelle amorevole e vicina.

Ma il diavolo fa solo le pentole.

E le pentole di Patrizia, che giura di aver scritto un libro pieno di rabbia e di dolore perché solo scrivendo di dolore e di rabbia si possono sconfiggere l’una e l’altra, sono completamente prive, invece, del coperchio di tutt’e due le cose.

Nelle sue pentole io ho trovato tenerezza e struggimento, invece.
E – soprattutto – il chiaro e nitido dato di fatto che sono le pentole di una persona giovane, che al dolore e alla rabbia non accompagna alcun senso di sconfitta, perché si sente amico il tempo. E sa che uscire dal cerchio di fuoco conduce sempre da qualche parte chi ha il tempo di partire.

Di certo è la storia di una, o due, e forse addirittura tre sofferenze; è la storia di cose non dette ma pensate lì per lì, mica solo quando sono state scritte.
Però – lo voglio ripetere – è la storia di chi si sente amico il tempo.
Di chi è sopravvissuto con enorme dolore alla morte altrui sapendo che oltre quella morte c’è altra vita; e ce n’è tanta.

E alla fine, l’unica cosa veramente importante da capire mi sa che è questa: che non c’è modo per raffreddare le emozioni; che l’anestesia emotiva è una finzione temporanea; che la vita è piena di fuoco, e scotta, e brucia.

Una madre può industriarsi quanto vuole per esser fredda o gelida, ma sarà sempre una madre, e la figlia dentro di lei cercherà sempre il calore che c’è.
E una figlia può industriarsi quanto vuole a essere lontana e impermeabile, ma sarà sempre una figlia che ha cercato il calore.
E – comunque sia – l’ha trovato, anche se le è sembrato poco.
Perché, in fondo, il ghiaccio ustiona.

Mi viene in mente una frase dell’Insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera (libro che a suo tempo mi piacque moltissimo e ora detesto come si possono detestare solo i vecchi amori in cui percepiamo la macchia della nostra imperdonabile ingenuità).

La frase riguarda il rapporto fra Tereza e la madre.
Dice: «E se la maternità è l’incarnazione del Sacrificio, allora il destino di figlia è la Colpa che non si potrà mai espiare».

Dev’essere per questo che comprare le scarpe coi tacchi e le creme per la faccia è tremendamente importante.