gli homeless come fatto estetico

In genere, la stilista Vivienne Westwood non mi dispiace, per il suo gusto dissacrante e l’amore per l’eccesso disarmonico.

Adesso lancia in passerella ciò che i giornali definiscono il «look homeless» spiegando anche – lo fa Repubblica.it – che è «meglio homeless che banchieri».

I modelli sono truccati da persone sporche, coi capelli tinti da ciò che dovrebbe ricordare la polvere che annoda e sbianca i capelli di chi vive per strada.

Io vorrei francamente sapere da quale punto di vista è meglio essere homeless che banchieri, però: non credo che non aver niente con cui vivere sia un titolo di merito, né una condizione augurabile.
E se il punto di vista è quello morale non c’è comunque nessuna garanzia del fatto che un homeless diventato banchiere si comporterebbe da homeless invece che da banchiere.

E poi: come si comporta un homeless?
E ancora: chi non può lasciare nessuno sul lastrico perché non ne ha il potere è forse migliore di chi non intende lasciar nessuno sul lastrico perché non vuole?

Trattare le persone senza casa come un fenomeno estetico e di costume mi irrita, anche se riconosco che depotenziare la negatività di un’«immagine» (chiamiamola impropriamente così) può avere un senso.

Il fatto è che non mi piace l’idea di vedere per le strade i riccastri travestiti da homeless e magari pensare che con quegli abiti essi siano anche convinti di compiere un’azione moralmente significativa.

E non mi piace neanche che i vestiti della Westwood costino così cari: forse, se costassero quanto costa uno straccio, l’operazione mi sembrerebbe più coerente.
Non che la coerenza sia in sé un valore.
Ma se fossi una homeless mi incazzerei.

Mi viene in mente Gramsci.
«I popolani, per il Manzoni, non hanno vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali e il Manzoni è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione di animali».
Magari non c’entra, ma a volte le associazioni di idee non perdonano.