la personaggità e i giochi di società

A margine di pensieri «sociali» che, sebbene piuttosto formalizzati già ora, prenderanno nelle prossime ore una struttura più solida, mi veniva da interrogarmi su un punto che rasenta il nichilismo.

Premessa: mi faccio un giro su Facebook e leggo in un thread – ma se ho capito male chiedo scusa – una garbata lamentela sul fatto che ora vanno sciaguratamente di moda i libri che hanno una storia che ha un inizio, uno svolgimento e una fine, e per essere letti non hanno bisogno del vocabolario.

Stavo cominciando a scrivere una domanda sotto quel thread.
Perché, volevo chiedere, una storia e una lingua comprensibile non vanno bene?
Perché una cosa non può essere bella e anche comprensibile?
Oppure: perché devo prendere per forza il vocabolario per capire cosa sta dicendomi un Autore – maiuscola obbligatoria – che non mi sta nemmeno raccontando una storia?

Volevo scrivere.
Poi mi son detta «Fede, lascia stare. È un gioco, e in quel gioco tu non c’entri».


Leggevo su qualche sito che Maroni, con grande sicumera, dice che il rapporto di Medici senza frontiere sui cosiddetti centri di identificazione e di espulsione è un rapporto falso, perché non è vero che nei «cie» non ci sono diritti.
Così.
Falso.
Punto.
Non «falso perché».
«Falso» e basta.
Stavo per scrivere qualcosa, qui sul blog.
E poi mi sono detta «Fede, lascia stare. Non ha senso. Bastano le affermazioni, i perché non hanno senso».

Di nuovo su Facebook (non sto descrivendo una sequenza temporale: la mattina è andata in due o tre cose, fra cui una treccia di pane che è venuta bella e pure buona): autopropaganda, autopromozione, amicidegliamici che dicono uau ad amicidegliamici, sempre gli stessi giri; amicidegliamici che ti consigliano raffiche di dieci titoli di libri da leggere (ma dove lo trovano il tempo di leggerli, prima di consigliarli?), e ringraziamenti di stracuore ai cognati degli amicidegliamici, e fierezzeveramentefiere per aver fatto questo o quell’altro, e annunci saròquistaseranonperdetevilappuntamentocheèimportante.

Volevo scrivere, dire: ma caspita. Ma caspita. Ma che cosa cazzo è, per voi, la vita.
Cosa state buttando fuori, in quelle paroline destinate tessera dopo tessera a comporre il mosaico della vostra identità para-pubblica?
Quale personaggio state giocando a fare?
Quando state male che cosa fate?
Scrivete lo stesso su Fb che state bene?
Quando state male, o nutrite dubbi su voi stessi, cosa fate? Vi rinchiudete in voi stessi? Lasciate stare Fb per due o tre giorni? Oppure Fb è la prigione che vi rassicura intorno alla vostra personaggità e non la potete lasciare neanche un minuto perché è l’unica cura possibile ai dubbi su voi stessi, ammesso che mai ne abbiate avuto uno?

Io queste cose le penso. E alla fine le ho anche scritte.
Ma che senso ha pensarle e scriverle, mi domando.
E mi dico «Fede, lascia stare. È un gioco, sempre quel gioco. Il gioco dei “giri”, il gioco del “che bella comunità di gente che si ama e fa le cose insieme”, è il gioco del “visto come siamo aperti?” e invece quel che i giri fanno è affermare e difendere la propria personaggità collettiva».
Un personaggio tien su l’altro, gli dà stampella e bastone, e complimenti, e carezzine, e pat-pat, tu sì che vali amico mio, no vali tu amico mio, quello veramente grande sei tu, mi piace, questo elemento piace a te e ad altre 812 persone.

Dev’essere nichilismo, sì.
Ma è come se non ci fosse altro che il proprio ego smisurato a cui dar da bere, come per paura che se ne veda in trasparenza l’avvizzimento, non so.
Non c’è l’assicurazione da pagare, la macchina rotta, la cellulite, l’età che avanza, le teste di cazzo; c’è il migliore dei mondi possibili, pieno di intellettuali meravigliosi e di merdine che gli intellettuali meravigliosi trattano alla stregua di scarafaggetti intravvisti nella penombra del cesso della stazione.

Dev’essere nichilismo.
O palle piene.
O senescenza precoce.
O checcazzo ne so.
Però io so – so bene, chiaramente, nitidamente – che dentro c’è una cosa morale, una cosa che ha a che fare con l’etica.
La mia discutibilissima morale e la mia discutibilissima etica: quella roba che mi impedisce, sempre e comunque, di rendermi personaggio. Di vendermi come un prodotto. Indipendentemente dai margini ipotetici che avrei per farlo.
A quindici anni mi chiesero di fare la modella, e dissi di no.
Sono rimasta quella lì, quella che a quindici anni dice no a una proposta di sfilata.
I personaggi mi stanno sullo stomaco.