forse sono una stronza razzista

Uscendo dal lavoro ho visto un uomo disteso a terra sul marciapiede, con la schiena appoggiata alla facciata di un palazzo.
Davanti a lui c’era, rovesciato all’insù, un cappello con la visiera.
Quest’uomo mendica – ma sempre in piedi – da quelle parti.

Stasera singhiozzava disperatamente, era squassato dal pianto.
L’istinto mi diceva «vai, abbraccialo».
Poi mi è venuta la paura che puzzasse. Ci ripenso e mi pare impossibile: m’è venuta la paura che puzzasse, cazzo.
O che essendo io femmina lui potesse equivocare la natura del mio gesto, o anche solo aggrapparsi al mio gesto come un uomo disperato si aggrappa al corpo di una donna.
Che la volta che l’avessi rivisto non avrei più potuto dargli un’attenzione distratta mettendogli in mano due euro: avrei dovuto parlargli, ascoltare, esserci.

E poi ho pensato che tutti quanti ci allontanavamo da lui, e che in questo mondo assurdo non c’è nemmeno lo spazio per un abbraccio a un uomo disperato, solo, desolato, distrutto, sconfitto, fallito; per una carezza a un uomo che ha sognato e ha pagato caro ogni frammento del suo sogno.
Non so. Non ne esco.
Giovanni ha commentato: «È un uomo senza niente, senza se stesso».

E mi viene in mente che per molto meno di quel che ho scritto qui, quando avevo da poco aperto questo blog, ci fu chi mi diede della stronza razzista.
Forse sono una stronza razzista.