what a wonderful world

Abbiamo cenato nel giardino più bello del mondo.
Non ho mai visto un giardino più bello e più gioioso.
I tavolini erano su un prato, o su un pezzetto di terra, o sotto un pergolato.
C’erano un banano, un melograno, molte viti, bouganville fucsia, piantine di peperoncino, piante di basilico, reste d’aglio appese, zucche dipinte pendenti, mattoni forati dipinti di rosso da cui spuntavano piantine fiorite, roccette dipinte di bianco calce, colonnette verniciate di rosso, di blu, di verde, di bianco.

Nella cucina c’erano un uomo e e una donna non giovani.
Avvolgevano le foglie di vite intorno al riso.


La «taverna Athiri» era sulla strada che dalla spiaggia di Tsambika porta verso la statale Rodi-Lindos.
Ho fatto un bagno così bello che mi è sembrato di essere tornata bambina, quando mi dovevano chiamare cento volte, prima di farmi uscire dall’acqua.
Ad assegnarci l’ombrellone è stata una coppia di attempati figuri niente male: lui tatuato e senza denti, lei strabionda e rabbiosella.
Però la spiaggia è bellissima, e si sta al sole senza sudare minimamente; e il mare è meraviglioso.

Andando giù con gli occhialini sembrava che il fondale di sabbia fosse l’unico ostacolo che impediva di spingere lo sguardo fino al centro della terra.
Non c’erano bollicine, alghe, fazzoletti di carta, tappi. Niente.
Pulita, e di una temperatura perfetta.

Oggi ho incontrato una donna con un nome americano – Jessie – e un nome greco che significa «coraggio».
È un’americana venuta qui vent’anni fa a fare da suora nel monastero di Moni Tsambika.
«You are looking for a quiet place, you need a quiet place», mi ha detto a un certo punto mentre chiacchieravamo e io le chiedevo perché aveva fatto la scelta di lasciare l’America e venire qui.

Ha ragione.
Ho bisogno di un luogo tranquillo.
Correre, correre, dicevo a Jessie vestita con quel suo strano saio marrone di lino senza maniche, croce «commissa» (a «t») al collo, due bande di capelli grigi che scendevano oltre le spalle.
Correre, allora: e per andare dove?