dell’utri e de andrè

Leggevo che sono state depositate le motivazioni della sentenza con cui la corte d’appello ha condannato il senatore berlusconiano Marcello Dell’Utri a sette anni – riducendo la pena di due anni rispetto alla sentenza di primo grado – per concorso esterno in associazione mafiosa.

Non mi interessa, qui, il fatto che secondo i giudici Dell’Utri mediò fra la mafia e Berlusconi, attività che non ho bisogno di deplorare perché inaccettabile in se stessa a dispetto di ogni possibile cinismo realista.
D’altra parte, come già altre volte m’è capitato di dire, non ho bisogno di una sentenza per suffragare le mie idee politiche; né mi serve, da cittadina (da giornalista sì, invece), alcuna prova dei convincimenti che riesco a formarmi connettendo punti anche distanti fra loro e interpolando secondo la mia logica.

Mi piace invece far notare una frase del condannato, così come riportata da Repubblica:

«I giudici hanno ricicciato le stesse cose della sentenza di primo grado.
Sono sostanzialmente le stesse accuse del primo processo».


A parte l’uso del verbo «ricicciare», che un senatore potrebbe forse sostituire con qualcosa di appena più polito (ma non importa), mi pare del tutto singolare che Dell’Utri si stupisca del fatto che un processo di secondo grado riguardi i medesimi fatti già esaminati dal processo di primo grado.

Certo: un giudice può riformulare i capi d’accusa, e a volte accade.
Ma il processo d’appello è a garanzia dell’imputato: come sorprendersi che all’imputato venga dunque fornita la possibilità di difendersi due volte (tre con la Cassazione)?

Non intendo fare apologia della magistratura, se non altro perché nel mio cuore ci sono alcune cose di De André (e francamente non alludo a «Un giudice», ma al meraviglioso «Recitativo (Due invocazioni e un atto di accusa)» dall’album struggente «Tutti morimmo a stento», nel video qui sopra, o alla durissima e splendida «Nella mia ora di libertà»); e il potere in sé, con il suo apparato istituzionale, non è mai riuscito sembrarmi sufficientemente amichevole da spingermi a difenderlo.

Ma ciononostante non posso evitare di domandarmi questo: avrebbe forse Dell’Utri preferito venire processato dalla corte d’appello per reati diversi e fatti nuovi?
Come se a ogni nuovo grado di giudizio i giudici avessero pieno arbitrio sull’individuazione dei fatti che son chiamati a giudicare?
Veramente avrebbe preferito accuse a sorpresa uscite dal cilindro all’ultimo minuto?

Come si possono usare le parole con tanta leggerezza, con tanto disprezzo per il loro significato?