la differenza fra un crollo e l’apocalisse

Non intendo sostenere che gli scavi di Pompei siano ben gestiti.
Quelle pietre fanno parte delle mie memorie più care, perché ogni anno ci andavo con le mie zie e i loro cugini come in pellegrinaggio; ma della loro gestione non so niente, e non fatico affatto a pensare che potrebbero benissimo essere gestite in modo infinitamente migliore.


Però.
Io voglio solo dire che, per quanto grave sia il crollo di stamattina (e, dannazione, lo è eccome), non è «caduta a pezzi» l’intera area archeologica di Pompei; né «si sbriciolano gli scavi».
L’area visitabile è ancora enorme; è ancora una delle aree archeologiche più grandi e significative del mondo.
Capisco che non è una buona ragione per farla andare in rovina; ma sta di fatto che è caduto un edificio, il cui tetto – peraltro – era stato rifatto dopo il bombardamento della seconda guerra mondiale, e probabilmente era pure più pesante di quanto gli antichi muri perimetrali potessero sopportare.

Va bene la forzatura giornalistica: ma se crollano le palazzine costruite negli anni Settanta, può avere un suo senso che crolli un edificio eretto prima dell’anno 79 dopo Cristo?
Non sto dicendo che il tesoro archeologico unico al mondo rappresentato da Pompei non vada tenuto al riparo e protetto da ogni possibile danneggiamento, naturalmente.
Dico che parlare di scavi sbriciolati è, a suo modo, moralismo pseudo-millenarista.
È come se, dopo il crollo – che so – una villetta a Lambrate, qualcuno scrivesse «Milano cade a pezzi», o «Milano si sbriciola» (e qua ci starebbe bene un «La polizia non può sparare»).

E tra l’altro, per favore, alzi la mano chi, leggendo i due titoli di apertura delle homepage di Repubblica e Corriere, non ha pensato cose come che gli scavi sono diventati la pallida ombra di ciò che furono; che andarli a visitare è un rischio per la propria incolumità; che, in definitiva, di un tesoro archeologico come quello non ha senso mettere a capo dei napoletani.