palla ovale, avvocato alto

Domani andrò a vedere il test match fra la nazionale italiana e la nazionale argentina, la mia prima vera partita di rugby.
È possibile – non mi sento di escluderlo – che sia anche l’ultima, ma sono portata a non farne un dramma.
La retorica della virilità leale di cui questo sport si ammanta tende a irritare quella parte di me che reagisce alle frasi fatte e a quella particolare convinzione tutta maschile che fra uomini – amici o compagni di squadra – ci si capisca con un’occhiata mentre invece noi donne c’abbiamo bisogno di verbalizzare tutto.

È da dire che ultimamente i muscoli delle spalle dei rugbisti hanno smesso, per motivi oscuri, di essere così tragicamente ipersviluppati da sommergere i colli dei loro «portatori» in un grande triangolo di carne (cosa che li faceva sexy come tronchi di sequoia rastremati verso il basso); ma nonostante i calendari francesi e l’appeal da rotocalco di alcuni giocatori io continuo a pensare che il fisico dei pallavolisti – uno su tutti: Mastrangelo, per esempio – sia completamente un’altra cosa. Inarrivabile, per dire il primo aggettivo che mi viene in mente.

Comunque: di domani temo un po’ l’atmosfera, quell’idea da «grande-famiglia-di-uno-sport-dove-si-soffre»; quella specie di eroismo sottotraccia che percorre crani orgogliosi e si spinge a volte fino alle avide pance da birra.

Sono femmina e astemia, d’altra parte; pare che le due cose abbiano un certo livello di incompatibilità con il rugby (non con i rugbisti: va detto)…

Un po’, però, sono curiosa.
Ah.
Per il valore che ha.
Ho appena finito di «passare» la seconda bozza del mio L’avvocato G., tagliando qua e là avverbi e aggettivi.
Beh.
Mi piace.
Sono contenta di lui.
C’è. E dice.