una maglia rotta nella rete che ci stringe

Ed ecco che prendo la rincorsa per un triplo salto carpiato: discutere abbastanza sul serio di una faccenda come questa

e dire una cosa.
Questa.

La borsa che si sposa con le scarpe, «signora, guardi che questa è la sua», la sciarpa in nuance, il colore delle calze che richiama l’orlino di pizzo che emerge dalla scollatura, il rossetto in tono con camicia o biancheria e smalto, orecchini in parure con laccio al collo, bracciale e anello («ne abbiamo venduti tantissimi, quest’anno»), un profumo ambrato o speziato solo di sera…
Be’.
Tutto questo, insieme, è assolutamente poco elegante.

Secondo me il segreto dell’eleganza è avere sempre una cosa (al massimo due) fuori contesto; una piccola nota kitsch, una smagliatura, una porta aperta all’imperfezione.

La coazione a rendersi esteticamente impeccabili e «normalizzati» tradisce un’intenzione di addobbo di sé e – azzardo – una sostanziale inimicizia per se stessi.
Come se uscisse allo scoperto il nostro timore di non essere amati se non a condizione di camuffare in una divisa le nostre vergognose imperfezioni di esseri umani.
E come se, corazzandoci di regolarità, ammettessimo di non fidarci mai abbastanza degli altri per lasciarli passare attraverso la porta socchiusa delle nostre imperfezioni.

Le persone migliori che ho conosciuto avevano sempre una cosa fuori posto, disarmonica, eccentrica. Il sandalo (temporaneamente) nero sotto il vestito da sposa, le scarpe da suora sotto un corpetto aderente, una stola fantasia sopra un vestito fantasia…