lèggere il leggèro (I’m not a lost soul, though)

Guardavo da una certa distanza le mie disordinatissime librerie, e le pile di volumi che ci sono di fianco al comodino, a destra di un divano, in un angolo del tavolo della cucina.
C’è di tutto.


Da Montaigne a Sophie Kinsella, da Foucault a Marian Keyes, da Ken Follett a Derrida, da Zoe Heller a Elizabeth George, da Avoledo a Montanari, da McCourt ad Ammaniti; e via per una sequenza di oscillazioni rapide ed emozionanti, curve strette e discesoni mozzafiato; alcuni li ho letti fino in fondo, altri no, e a volte me ne pento; altri li ho solo scorsi. E non ho intenzione di dire chi mi abbia più irretito nella tela di un rapimento, trascinandomi capelli al vento in un’avventura di comprensione e immersione nell’umano.

Ogni volta che le guardo, le librerie e le pile di libri, mi vengono in mente le lezioni di Giorgio Pullini che seguii per letteratura italiana I (corsi monografici su Grazia Deledda, nascita del romanzo e psicoanalisi, e Manzoni tragico e teorico: eh…).
Raccontando la vita della scrittrice di Nuoro con l’entusiasmo e l’appassionata pedanteria che rendevano per me le sue lezioni un’esperienza emotivamente coinvolgente, Pullini diceva che la Deledda – il cui padre, per darle la possibilità di trattenersi un po’ più a lungo nel mondo della cultura, le concesse grazia di poter ripetere la quarta elementare – s’era nutrita bulimicamente di letture eterogenee e disordinate.

Anch’io.
Eterogenee e disordinate.
Completamente.

Poi mi viene in mente anche un’altra professoressa, e sempre di letteratura italiana, ma questa volta della prima liceo.
Una volta, a proposito di non so quale autore – non vorrei azzardare l’impossibile, ma poteva forse essere Cervantes – pronunciò una frase che mi rigiro in testa da un bel po’ di anni. Ne ho perso l’inizio, ma proseguiva così: «… intuizione un po’ confusa di lontananze geografiche», disse.

Ecco.
A me interessa leggere per intrattenermi nel giardino che qualcuno ha dipinto per me riempiendone gli alberi di frutti e i prati di fiori, e l’orizzonte di pericoli e magie, e il cielo di nuvole e sole; in un giardino creato da un cuore che ha un’intuizione un po’ confusa di lontananze geografiche.
E non capisco la censura morale che l’Intellettuale scaglia contro l’intrattenimento, quasi fosse una specie di fuga infantile dalla fatica adulta e meritoria della lettura.

«Intrattenersi» significa «essere tenuti fermi», o «tenersi fermi fra».
Non «svolazzare nella più infantile, svagata e rimbambita delle felicità inconsapevoli».
E non so neanche perché leggere dovrebbe essere fatica (qui van proprio bene i riferimenti al Beethoven di Kundera, ma soccorre perfino il leggiadro Pennac).

Io penso – lo so: potrei lasciarlo fare a chi lo sa far davvero, invece di pretendere di forzare energie debolucce e renitenti – che questo mio modo di leggere è molto simile al mio modo di essere.

L’attitudine vorace, però, non è priva di un fil rouge.
Solo che il filo è più sottile, interiore e lungo di quelli che a se stessi consentono di maneggiare coloro che si sentono in prima linea, esposti perché considerati grandi – o anche medi – scrittori, o grandi – o anche medi – critici.
Per l’Intellettuale Laureato il tempo è nemico: egli deve dire, scrivere, analizzare e produrre testi velocemente; almeno finché a sostenere il suo viaggio nelle lettere non trova il carro armato dell’auctoritas di qualcun altro; e se il carro armato sia accademico o televisivo, forse fa differenza soltanto per gli aspiranti televisivi e gli aspiranti accademici.

Io, invece, ho tempo.
E i segreti legami fra le cose eterogenee che ho letto (e fatto) li scopro spesso dopo un po’ di tempo.
All’improvviso si accende una luce e io mi dico «ecco! Adesso è tutto chiaro!».
Sono momenti bellissimi.
Sono momenti in cui scopro di essere più intelligente di me, e di essere adatta alla vita più che alla letteratura.

Penso che nei confronti della lettura esista un pregiudizio ideologico che mi sembra tremendamente fastidioso: si legge ciò che vale.
A me piace leggere anche quello che non necessariamente vale. Mi basta che mi piaccia.
Le trame di Sophie Kinsella sono cervellotiche, ma ben costruite.
Le storie di Elizabeth George sono articolate e profonde, scritte in una lingua splendida. Ma vende troppo, poveraccia.

Chi legge deve soffrire, insomma; faticare a girare la pagina. Cogliere le citazioni di cui il testo è disseminato come un campo minato è disseminato di mine.
È una gara a chi è più fico, a chi ce l’ha più lungo (il cervello, ovvio), a chi ha studiato di più, a chi sa collegare più puntini («qui l’Autore si richiama forse inconsapevolmente alla grande tradizione trobadorica, transitando attraverso reminiscenze wagneriane e financo dantesche, potrebbe forse dir qualcuno, particolarmente se si pensi alla teoria delle macchie lunari e ai suoi strettissimi legami alla Scolastica e ad Agostino»).

In termini generali, poi, sarebbe bene che chi legge scegliesse autori famosi ma non tanto da poter essere considerati dei Vespa della letteratura; «bollinati» dalla più ortodossa delle officine intellettuali di una sinistra dalla cui ragione sociale sta sbiadendo perfino la «d» di Pd (e senza che la «p» possa davvero significar partito), profeti di temi apparentemente spinosi per la coscienza di questo piagato corpo sociale, e invece predigeriti come il secreto dell’omaso di un ruminante.