sooolo un tè

Devo stare antipatica, a questo tipo del bar.
Sulla vetrina, accanto a Boulevard cafè in caratteri trendy, c’è scritto ben chiaro «free wi-fi».
Eppure, a dispetto del mio tailleurino Armani che mi fa sentire – eh – così intensamente italiana, gli devo aver fatto l’impressione della profittatrice, perché quando gli ho chiesto un tè lui ha domandato «sooolo un tè?», e adesso che ho tirato fuori il portatile e la finestrina mi ha avvisato che per accedere alla rete wi-fi avrei bisogno di una password, non s’è fatto manco passare per l’anticamera del cervello di venire qui a chiedermi «le serve la password per accedere alla rete, gentile avventrice?».
Dev’essere perché – oltre a prendere sooolo un tè – gli ho anche chiesto di utilizzare il bagno.
La cosa curiosa è che altre due donne, in questa stessa stanza – bella, eh, niente da dire: ben arredata, scicchettina, penombrosa – hanno sul tavolo una tazza di tè, e un portatile Mac.
Una ha davanti agli occhi la videata di Facebook.
L’altra quella di Gmail.
Io ho quella di TextEdit dove sto scrivendo queste stronzate.

Forse basterebbe che io mi rassegnassi a chiedere la password, ma qui dentro tutto è cominciato male fin dal primo istante.
L’uomo mi ha portato un menu in cui il tè, il caffè e il cappuccino occupavano significativamente la porzione più bassa e più nascosta della doppia pagina.
Grande, c’era l’indicazione delle cose da mangiare.
Perfino le bistecche.
La sua delusione per il mio tè ha un che di comprensibile.

Ho fatto un giro per i miei soliti negozi, e – se va avanti così mi tocca pure fare la parte di quella snob – le svendite hanno ucciso ogni mia speranza di trovare qualcosa di minimamente carino.
Tutto ciò su cui in settembre avevo messo gli occhi esisteva solo in taglie tragicamente piccole o esageratamente grandi.
Mi son ridotta a chedere alla commessa di Rococo se una certa splendida gonna di velluto di seta grigia era davvero una taglia 38. Come se le targhettine potessero mentire allo stesso modo di – che so – un presidente del Consiglio europeo preso a caso (‘azzo: questa mi è venuta quasi all’altezza di una di quelle penne femminili à-la-page, facciamo una Soncini, tipo. E comunque ho detto quasi).

Naturalmente era una vera taglia 38, ancorché probabilmente abbondantina; però io devo pure dire che mi era stretta di poco. Si chiudeva e tutto, ma le pieghe tendevano ad aprirsi un pochino.
Gonnellina a parte – un amore – il resto, in giro, erano rimasugli di magazzino di un tot di stagioni commerciali fa.
E quel che si salvava costava l’iradiddio.

Niente da Ecco.
Niente da Rococo.
Niente da Avoca.
Niente da TkMaxx.
Niente da Carousel (con l’unico vestito che ho provato sembravo la bella lavanderina che lava i fazzoletti camicie e camicette lalà-lalà-lalà).

Su commissione, ho dato una carezza a Molly Malone (pron: «Malòon»; la rima con «commissione» non c’è). Le tette erano troppo alte (è morta giovane) per ricevere le mie attenzioni; e d’altra parte temo che chi mi ha in certo qual modo commissionato il gesto, frutto di una mediazione, sia piuttosto poco interessato all’articolo in se stesso.
Così mi sono limitata alla mano, a una carezza sulla mano.
Non che il tocco leggero alla mano di una statua sia una cosa che passa inosservata. Però un po’ di dignità l’ho conservata.

Mi sento così a casa, diamine, che mi viene da parlare in italiano, e questo mi fa pensare che forse sto sviluppando un senso di estraneità perfino rispetto a questa città.
E Giovanni ha la febbre, tesoro mio.

Vabbè.
Stasera da Rosemary copio questa roba e la faccio diventare un post.
Sono già stanca morta, e il corso deve ancora cominciare.

Ah. Mozzi, avendo visto il post precedente, mi scrive «ma che faccia che c’hai, Federica».
Ho l’impressione che non sia un complimento.