donne infelici

Non mi piace, non mi piace per niente quando noi madri decidiamo che dai nostri figli dobbiamo spremere fuori tutta la loro felicità, tutta l’illusione – e poi: sarà davvero un’illusione? Chissà… – che la vita sia tutta loro.

Sono stata a ritirare la pagella di mio figlio, oggi.
C’erano madri col velo. Non sapevano una parola di italiano, e con il figlio parlavano una qualche lingua araba.
Il figlio faceva da interprete per loro con le insegnanti, portando sulle sue piccole spalle di ragazzino tutto il peso dell’«integrazione» della mamma; svolgendo una funzione di protezione, insomma.

Questi ragazzini stavano per essere bocciati, in omaggio al criterio feticcio della meritocrazia, e magari anche all’idiozia feroce del malinteso senso di giustizia, tipo «ma se mio figlio studia e lui no, perché lui dev’essere promosso come mio figlio?».
La logica della «giustizia» al contrario, insomma.
In sostanza, la logica dell’«ingiustizia»: non quella in virtù della quale se a qualcuno succede qualcosa di positivo, allora possiamo sperare che qualcosa di positivo accada anche a noi; ma la logica secondo la quale se a me capita qualcosa di bello, beh, me lo sono meritato, e se a te capita qualcosa di bello togli qualcosa a me anche se in realtà non mi togli niente, e – anzi – potremmo gioire insieme.

Nella classe di mio figlio sono stati promossi tutti, e io lo trovo molto giusto.
Nella vita possono accadere milioni di cose, e non c’è davvero nessun motivo per il quale si debba decidere di negare la licenza media a qualcuno che magari a trent’anni potrebbe decidere di cambiare obiettivi di vita e invece si troverebbe a dover prendere la licenza media.

Bocciare nella scuola dell’obbligo mi sembra un’enormità, un abuso tremendo.
Mi sembra che non tenga minimamente in conto che la scuola mette al mondo una relazione, ed è quella relazione ciò che va valutato. Non i compiti in classe e basta.

Al di fuori di questo, c’è solo una scuola classista.
Una schifosa scuola classista come quella che hanno in mente alcune madri, quelle di cui parlo all’inizio del post.
Quelle che misurano il senso dell’adolescenza dei loro figli utilizzando il tasso di apprendimento formale delle materie scolastiche; quelle che fanno i piani sulla vita dei figli come se loro non contassero niente, e allora le senti vaticinare «mio figlio andrà al classico, e dunque deve conoscere la grammatica a menadito, altrimenti poi al liceo si trova male».

Povere, povere, povere donne. E poveri figli.
Ridurre la vita a questo, a standard. A produttività. A rispondenza alle aspettative.
Uccidere la luce negli occhi dei figli. Caricarli di attese, costruire per loro percorsi rigidi e secondo standard.

Loro fanno finta di credere che sia una questione di «opportunità»; dicono che loro stanno cercando di dare ai figli più opportunità, cercando di garantire loro il massimo possibile di apprendimento.
In realtà, tremano al solo pensiero che il loro figliolo non sia all’altezza delle loro ridicole aspettative di successo.
Il loro figliolo è una specie di borsa di Vuitton da portare al braccio.

Chissenefrega se la mia borsa non è felice perché io nemmeno le insegno che nella vita si possono fare un sacco di cose «irregolari», eccentriche, imprevedibili, strambe, a zig zag: le borse non hanno un’anima.

Poveri figli. Poveri figli.
Io non so che scuola superiore sceglierà mio figlio.
Ma mi auguro che lui sia felice; che si prenda cura di sé, che si tenga in considerazione, che si voglia bene, che sappia correre quando vuol correre e rallentare per sentire il profumo dei fiori quando vuole sentire il profumo dei fiori.
Mi auguro che sappia che il mondo è nella sue mani; che lo senta, che percepisca l’importanza dei suoi sogni. Che li culli. Che culli se stesso.