trema’n inis (vers l’île)

caldo_freddoEsco – e spero di non rientrarci – da un momento piuttosto lungo di difficoltà. Ho dovuto riassestare prospettive, orizzonti, aspettative, quotidianità. Sono stati anni in cui il grosso della fatica è consistito nel sopravvivere – tentando di minimizzare i danni – in un ambiente adatto alla vita come il suolo lunare, fatto salvo il fatto che la forza di gravità era di tutt’altro segno. Anche la ‘debolezza’ di gravità, ma questa è un’altra storia.

In questi anni – penso siano almeno sette – ho dovuto rendermi conto di molte cose che nel tempo avevo voluto tenere in ombra, e tante consapevolezze nuove si sono fatte strada lentamente.
Tante relazioni, amicizie, contatti, si sono spenti: alcuni silenziosamente, altri con dolore interiore più forte. Ma non mi sono mai pentita del largo che ho fatto intorno a me.

Non sono più capace di fingere che una ferita non sia una ferita; che un gesto sgarbato o pesante non sia un gesto sgarbato o pesante. Non sono più capace di tacere. Ora reagisco, e ne pago il prezzo.
Tanto, anche non reagire ha un prezzo; e non è mai vero che non reagendo ti mimetizzi con lo sfondo e riesci a farti accettare in un ‘gruppo’.

Non è che voglio farla grande, ma questo mi è costato: in termini di relazioni utili, intendo, ma non solo.

E lasciare il lavoro m’è costato anche. Non è stata solo una gigantesca perdita economica netta, ma anche la perdita di un senso di me, di un ruolo.
Il fatto è che quel senso l’avevo già perso anche quando lavoravo. Me l’avevano tolto. Me l’ero lasciato togliere, perché non avevo alternativa.
Ci sono violenze di molti tipi. Femminicidi di molti tipi. Bastonate che non fanno rumore, ma ti si moltiplicano dentro in mille echi, e mettono a prova qualunque tua convinzione.
La prima cosa che accade è che per scendere a patti con quel che vedi devi in un modo o nell’altro guardare in faccia la tua impotenza.
Accettare la tua impotenza è una cosa difficilissima. Non è accettare il compromesso, o la mediazione. È proprio accettare l’idea che non puoi fare niente per cambiare nemmeno un pezzo minuscolo di quel che c’è intorno a te, perché anche coloro che soffrono nel percepirsi impotenti tanto quanto te hanno deciso che l’accettazione dell’impotenza è la loro unica strada.
E così diventano carnefici anche loro: tanto che tacciano, tanto che – come altri – contribuiscano a farti sentire male con parole e azioni, e non solo con omissioni.

Neanche di aver lasciato il lavoro mi sono mai pentita. Però è come se sentissi che c’è qualcuno che sta percependo uno stipendio al posto mio. So che tecnicamente non è così: ma sostanzialmente lo è.

Mia madre invecchia, e dopo una vita spesa a pensare che a darle la vita dovevo essere io – a volte riescono a sembrare normali e doverose perfino le cose più strane, nella vita – ora penso che se proprio c’è qualcuno a cui devo (ri)dare la vita, be’, sono io.
Mio fratello è il mio alter ego ucciso dalla vita. Io sono sopravvissuta – sana – alla guerra che lui ha perso. Non è andata così, naturalmente: a ‘ucciderlo’ lasciandolo vivo è stata un’incubatrice che non poteva fare parte in alcun modo della giurisdizione di una bambina.
Ma dentro di me lui è sempre stato la parte di me che non ce l’ha fatta. E io sono sempre stata quella che ce l’ha fatta a spese sue, come in una specie di sacrificio pagano in cui gli dei hanno preteso di scegliere quale fra noi avrebbe pagato per le colpe dell’altro.

Perfino scrivere, dopo che ho lasciato il lavoro, è diventato impossibile: dove vuoi andare, Fede? Cosa pretendi di fare? Non hai più nemmeno un lavoro, non sei nessuno.
Ho pensato a lungo che per me non c’erano speranze, che la fiducia non aveva senso. Che non potevo essere utile a nessuno. Che non avevo niente da dire a nessuno. Che non potevo guardarmi intorno, perché quel che si muoveva intorno a me dimostrava che aveva ragione chi, per anni, mi ha trattata da impotente.
Tutto si è mosso, come in un bradisismo, e non c’è stata nessuna struttura, nessuna impalcatura della mia vita, che sia sfuggita a una revisione critica pesante e appuntita.

Lentamente, da poco tempo, mi sembra che tornare ad aver fiducia abbia senso; che posso dare a me stessa qualche soddisfazione; che posso essere d’aiuto a chi mi ama; che so cosa chiedere a chi mi ama.

Tutta questa lunga cosa noiosa per dire che nel mio tentativo di rinascere c’è l’Irlanda. L’Irlanda è cruciale. È il luogo in cui io sono solo io, per come mi si vede, per come mi si vede agire e per come mi si sente parlare. Per come mi si percepisce a pelle.
È il luogo in cui la mia storia non conta.
È il posto in cui – dopo che nel 2010 dissi a Catherine Dunne (che era stata mia insegnante a un corso; mica un’amica. Eppure non bisogna essere amici, né amici di amici, a quanto pare, con le brave persone) ‘Ma perché non proviamo a fare qualcosa che metta insieme scrittori irlandesi e scrittori italiani?’ – nel momento di scrivere un editorial sul modo in cui è nato l’Italo-Irish Literature Exchange, la mano che scrive quell’editorial mette nero su bianco che quell’idea è venuta a me: a una benedetta signora Nessuno che un giorno ha detto una cosa, e subito dopo – sul marciapiede ovest di O’Connell Street a Dublino – si mise a telefonare per la gioia a tutti gli amici che pensava potessero essere interessati a quest’idea.

Ieri sera guardavo le foto del mio soggiorno in Irlanda del 2011.
È vero: spesso pioveva. Spesso piove. Ma a guardare quelle immagini io ho pianto di gioia e di nostalgia, perché in quel posto io ero io. Io sono io.

Avrò nostalgia anche di qui, lo so.
Avrò nostalgia di alcuni amici che adoro e so saranno sempre al mio fianco.
Avrò nostalgia delle mie pietre. Ma tornerò.

E intanto studierò, scriverò, camminerò. Forse imparerò a pescare. Vorrei.
E intanto metterò me stessa davanti a uno specchio che mi dice la verità: se riuscirò a fare qualcosa sarà perché sono riuscita a imparare una lingua che conoscevo male; perché sono riuscita a entrare in relazione con persone che di me non sanno niente.

Io devo molto all’Irlanda. Qualunque cosa accada, l’Irlanda ha fatto molto per me.
È stata quell’Altrove di cui avevo bisogno quando il Qui mi strozzava.

Ci sono ragazzi, in Irlanda, che vanno all’università a studiare musica e danza tradizionale. Ci sono ragazzi, e persone adulte, che decidono che si mettono a scrivere per professione. E c’è chi dice loro ‘sì, insisti, non mollare’.

E quel che ora confesso è che io a Catherine Dunne voglio un mare di bene, e che sono felice di averla incontrata, perché è una donna vera, gentile, generosa, forte, seria, determinata, solida, calda.
E voglio bene a June, un tornado inarrestabile che non sa neanche quanto è grande.
E voglio bene a Anthony, al suo continuo ‘to make a long story short’. E a Lia, che a Dublino fu la mia prima deliziosa insegnante di scrittura. E a Celia, così serena. A Jack Harte, così accogliente e sorridente.

E voglio bene a me stessa, adesso.
E sono felice di andare a leggere cose mie a Dublino e – poi – a Listowel.
E sono felice di andare a stare vicino allo Shannon.
E sono felice di andare via di qua.
Anche se avrò nostalgia, e rischio la delusione.
Ecco.