‘noi’ giovani, che guaio

svolta

Leggo questo titolo, quello che c’è qui sopra, e mi si riattiva tutto un gomitolo di ragionamenti che sto ruminando da tempo su lavoro, giovani, criterio generazionale e sfruttamento padronale.

C’è un momento, nelle nostre vite, in cui siamo convinti che se non ci sacrifichiamo enormemente non otterremo mai niente.

Siamo giovani, pieni di energia, e crediamo molto nella professione che abbiamo avuto il privilegio di scegliere.
A volte, poi, riusciamo perfino a credere in un lavoro idiota che non abbiamo scelto, non ci piace, non ci appaga e ci è capitato per caso.

Ci conformiamo al modello premiale dell’etica infantile e dell’epica familiare; andiamo in cerca dell’approvazione (e dell’amore?) di chi lavora con noi, di chi ci è sovraordinato.

Ce la mettiamo tutta e anche di più.
Ci chiedono di lavorare più a lungo? Diciamo sì, nonostante le proteste di fidanzati/fidanzate, mariti/mogli, figli, parenti, amici. Nonostante le proteste delle nostra pancia, che come al solito ci arriva prima.

Ci chiedono di lavorare al posto di qualcun altro? Diciamo sì.
Un giorno in più? Sì.
Spostare le ferie? Sì.
Rinunciare a un riposo? Sì.
Rimandare una festività familiare? Sì.
Rinunciare al matrimonio di un amico perché devi lavorare? Va bene.
Rinunciare a battesimi/comunioni/anniversari? D’accordo.
Fare le acrobazie perché hai mal di schiena e non riesci ad alzarti dal letto ma devi andare a lavorare? Ci sto.
Fare il lavoro di un altro? Va bene.
Dare di più? Massì.
Svolgere mansioni superiori? Okay.

Tu fai tutto questo, e pensi che abbia un senso.
Ti viene da pensare che abbia un valore in sé, e che comunque – visto che tu sei bravo e meritevole – tutto questo sforzo sarà premiato, e un giorno sarai capace di informare di te il lavoro che fai.

A poco a poco, però, capisci.
C’è anche chi lo capisce tutto in una volta, eh.

Ieri sera m’è capitato di cogliere brandelli di conversazione di due coppie di vicini di tavolo.
Lui secondo me era giornalista.
Lei non so, ma era di quelle donne che sfioriscono senza mai essere sbocciate.

Lui aveva la pancia che sfondava le barriere laterali del suo corpo, era gobbo, camminava a fatica.
Si vedeva che lavorava di più di quello che il suo corpo riusciva a reggere, e il suo corpo gli stava chiedendo in tutti i modi di fermarsi; implorava pietà.

Ognuno di noi sa in quale modo il suo corpo gli ha chiesto pietà.
Chi è ingrassato, chi ha smesso di dormire, chi ha cominciato ad avere dolori… C’è anche chi è stato avvisato direttamente da un infarto; chi ha dovuto fare i conti con una brutta depressione.

Quando ti tendi conto che hai creduto in qualcosa che non meritava la tua ‘fede’, e realizzi che la tua determinazione a vederti come lavoratore-essere umano ‘in ascesa’ era la conseguenza di un tuo preconcetto positivo, e che la fase espansiva che ti sembrava di stare vivendo in realtà non stava espandendo niente, cominci a domandarti come puoi fare a riprenderti quello che ti sei lasciato levare: tempo, affetti, ozio, vita, svago, divertimento.

Se tutto va bene – e non è detto – iniziano i primi no.
No, non voglio spostare le ferie.
No, non riesco a fare il lavoro del collega.
No, non voglio saltare il riposo né fermarmi più a lungo, a meno che non ci sia qualcuno che sta morendo.

A quel punto, scopri i diritti.
Continui a lavorare al cento per cento; la tua esperienza è tale per cui riesci comunque a fare il lavoro di due o tre persone, e usando attenzione e cura.

Ma dietro di te c’è un esercito di ‘giovani’ che è nell’altra fase, quella da cui tu hai fatto quell’enorme fatica a uscire, travolto dai sensi di colpa.

E quei ‘giovani’, meno bravi di te perché l’esperienza se la devono ancora fare, ti appaiono come tu non hai mai avuto il coraggio di considerarti: servi sciocchi.

Sono i tuoi peggiori nemici, anche. Non perché bisticcino con te, no.
Solo perché a qualunque questione collettiva tu voglia presentare, loro oppongono la cieca fiducia nel loro slancio giovanile e la loro pretesa di risolvere tutto in grazia del loro titanismo generazionale.
Salvo poi – è ovvio: ci sei passato anche tu – accettare supinamente qualunque soperchieria del capo.

Ecco cosa succede, col ‘ricambio generazionale’.

Fuori dai piedi coloro che hanno un’idea dei diritti, un’idea di lavoro come lavoro, che è più piccolo della vita; fuori coloro che hanno esperienza e capacità professionali messe alla prova da anni di fuori-programma, emergenze, risoluzione di problemi…

Dentro gli ‘yes-men’ pieni di entusiasmo; quelli per i quali ricevere una richiesta al di fuori del contratto – o perfino contraria al contratto – è motivo di orgoglio.

È anche così che si svuota di senso un luogo di lavoro, una professione; è anche così che si de-sindacalizza il sindacalizzato; è anche così che si fa del sindacato un’articolazione del potere padronale.

Questo è quello che succede quando si ‘rottamano’ i ‘vecchi’ invece di consentir loro di dispiegare il proprio potenziale e di insegnare ai ‘giovani’.

Quand’ero ‘giovane’ io non andava di moda la retorica aziendalista; anzi: aveva appena cominciato, ma fra i miei coetanei c’erano sacche di resistenza.

Ora, invece, siamo pieni di saputelli venti-trentenni che ti spiegano che il mercato del lavoro qui e il mercato del lavoro là; che l’articolo diciotto qui e l’articolo diciotto là; che la casta su e la casta giù; che i garantiti a destra e i garantiti a sinistra…

Perché il giovane è un ottimo acquisto, per un padrone.
Costa poco e rende di più; e non perché è più fresco, ma perché – come siamo stati più o meno tutti – nasconde la sua stupidità ‘politica’ dietro il paravento dell’entusiasmo.

Il mondo gira così.
Quando qualcuno dice ‘largo ai giovani’ c’è qualcosa che non funziona, perché questa è l’evocazione di una forzatura, e non di un fisiologico avvicendamento.

Certo: chi vuole restare al lavoro, ostinatamente, anche dopo i 65 anni o dopo i 70 potrebbe, onestamente, godersi il meritato riposo.

Ma non è che si può pensare di aumentare orribilmente l’età pensionabile e contemporaneamente ripetere i mantra dei ‘giovani disoccupati’: perché, se si fa così, gli unici che vengono fatti fuori sono quelli della generazione di mezzo, cacciati dal lavoro a pedate nel sedere.

Per la collettività, i costi dei loro prepensionamenti sono altissimi. Ma alle aziende conviene enormemente: arrivano giovani da pagare di meno, da spremere di più, e da licenziare quando vogliono.

Ne deduco che, quando questi ‘giovani’ cominceranno a realizzare quel che è successo, comprenderanno anche che stanno per essere rottamati pure loro. Ma sarà troppo tardi.

Il potere padronale, d’altronde, si perpetua così.
E questa è un’epoca d’oro.