basta cinismo

prigionieroNon avere l’applicazione di Fb attiva, non avere la finestra del browser in background, non ricevere corrispondenza da Messenger.

Ogni tanto lo faccio, disattivo il mio account Fb.

Questa volta è stato perché non posso reggere né la lettura dell’abiezione né la lettura dell’entusiasmo, e anche perché dopo il referendum sulla riforma costituzionale ho capito che parlare non ha senso.

Su un piano più generale mi era chiaro già da un po’, purtroppo, sennò mica mi sarei dimessa da un giornale.

Sul piano individuale, il referendum ha minato ogni certezza che potevo avere coltivato.

Un ex collega mi ha raccontato una storia incredibile.

Nel 1933, una ricca famiglia ebrea di Verona cerca una “tata” per i due bambini.

La cerca tedesca, perché è il tedesco la lingua degli affari.

Dalla Germania arriva una ragazza che la famiglia giudica idonea.
La ragazza, però, spiega che rimarrà a Verona per non più di due anni, per raccogliere il denaro necessario ad andare in Palestina.

Quando le chiedono perché, lei risponde che c’è quell’Hitler là, che lei ha letto il suo Mein Kampf, e che quello là ha un piano ben chiaro per sterminare tutti gli ebrei.

La famiglia assume la ragazza, ma la considera un po’ troppo preoccupata.
Siamo ricchi, pensano – questa è una di quelle cose su cui occorrerebbe riflettere adesso, noi – Nessuno ci farà del male.

Ma nel 1938 arrivano le leggi razziali.
La ragazza è andata via da tre anni.
La famiglia comincia a domandarsi se la ragazza aveva ragione e insieme a un gruppo di amici prepara la fuga vendendo le proprietà e trasferendo il denaro in Svizzera.

Poi partono.
Passano la notte al di qua della frontiera, ma l’indomani approderanno in un paesino straniero così piccolo che la presenza di un gruppo di persone non potrà passare inosservata.

E allora, ecco l’idea con cui, già prima di partire, hanno pensato di risolvere l’impasse: organizzare un finto matrimonio con tanto di sposi adeguatamente vestiti.

Fatto.

Fingono matrimonio e ricevimento, e poi se ne vanno tutti verso le destinazioni decise.
(Il resto della storia, non meno incredibile, magari lo racconto un’altra volta).

Facebook è la prova che la ragazza aveva ragione, e che nessuno l’ascolta.

Sono stanca del riduzionismo, delle risate su Trump, delle prese in giro sulla Brexit, dei “vediamo prima cosa fa Trump”, dei “Renzi è il meglio che la sinistra possa offrire”.

Sono stanca della pacata compostezza con cui i “ricchi” – ricchi di qualsiasi cosa: soldi o relazioni, anche se le cose vanno spesso di pari passo – spiegano che chi è in ansia lo è perché ha qualche sindrome psicologica, pensa di vivere in un mondo in cui non c’è abbondanza, e invece l’abbondanza c’è.

Sono stanca di quelli che “Trump è contro l’establishment”.

Sono stanca del cinismo dietro al quale persone che si definiscono intellettuali nascondono le loro paure oppure propagandano la loro virile assenza di paura, ridicolizzando chiunque ne abbia.

Il cinismo è la peggiore delle epidemie dei ricchi.

Ecco, insomma, perché non ho voglia di vedere Facebook: perché mi irrita.

È come quando fumavo e avevo sempre la gola un po’ infiammata.
Fb mi irrita.

Non ho bisogno di lasciar lavorare Trump, né avevo bisogno di lasciar lavorare Renzi, e nemmeno Berlusconi. Avevo capito con un po’ di anticipo, e non per una questione di diffidenza.
Né posso essere grillina, e figuriamoci se posso essere leghista.

Ma non ho più voglia di sprecare parole.

Ho speso tante energie nel cercare un senso alle cose della mia vita.
Non posso cercare il senso delle cose degli altri.

Da molti anni sono come la ragazza tedesca che è venuta a fare la “tata” a Verona.

Sono stufa di insulti, di parole.

E il disgusto per la semplicità con la quale persone anche carine entrano nelle vite difficili degli altri camminando su stivali chiodati – alludo a casi famosi, per così dire, a cui questo comportamento è stato riservato, con mia grande dolorosa angoscia – mi ha dato la mazzata definitiva.

Per ora, ogni volta che mi viene l’idea di fare un giro su Facebook è come quando – avendo appena smesso di fumare – mi veniva da prendere in mano una sigaretta: mi dicevo, e mi dico, “no, non ne ho voglia. Mi dà nausea. Per la puzza e per il fatto che mi distrugge”.