l’immondizia morale del «fronte del no»

Questa cosa del «no» che adesso pare abbia colpa di ogni cosa bisognerà pure che qualcuno, un giorno, si alzi in piedi e dica che è una vergogna.

Sul Corriere di oggi Sergio Romano, in un lodevolissimo esempio di apparente moderazione e sostanziale estremismo (tratto peraltro caratteristico, mi sembra, dell’autoproclamato «moderatismo» di questo periodo) scrive: «Esiste un “fronte del no” di cui fanno parte l’egoismo municipale, interessi affaristici, la camorra, il massimalismo anti-istituzionale e, perché no?, parecchi uomini politici a cui non spiacerebbe che il nuovo governo scivolasse subito su una buccia di banana».

Al pensiero del «nemico», denominato spregiativamente «fronte del no», non viene riconosciuta alcuna sincerità, alcuna base logica. Anzi: quello del «nemico» non è nemmeno considerato un pensiero.
È una deiezione.

Non c’è una sola parola dedicata all’ipotetico timore per la propria salute che ipotetici cittadini normali potrebbero legittimamente avere, almeno fino a quando qualcuno non si sarà preso la briga di dire qualcosa su questo punto.

Non c’è il minimo accenno, per esempio, alla quantità di rifiuti – anche tossici e nocivi – che da altre parti d’Italia sono negli anni arrivati al sud in grandissima quantità (che non siano la causa del problema può essere; ma che si possa non parlarne, beh, questa è un’altra cosa).

Vengono evocati concetti in qualche caso assolutamente privi di specifica capacità identificativa: che cos’è «il massimalismo anti-istituzionale»?
Qualcosa di simile a uno spregevole anarchismo volontarista sulle cui cause e sulle cui motivazioni noi altissimi profeti del tempo presente (ammesso che quest’anarchismo sia correttamente categorizzato e non sia invece una categoria di comodo), non siamo chiamati nemmeno lontanamente a interrogarci?

E infine – addirittura – viene corrivamente e senza alcun nesso logico, politico e perfino sintattico, suggestivamente sostenuto che cosiddetto «fronte del no» e la camorra sono la stessa cosa.
Cioè, seguendo il corto circuito ideologico di Romano: chi contesta è la camorra.
Possiamo tranquillamente dimenticarci che la camorra s’è in molti luoghi sostituita allo Stato – con la connivenza necessaria dello Stato, peraltro – a patto che mostriamo i muscoli col «fronte del no», che – tanto – è la stessa cosa. Così, tra l’altro, nessuno ci potrà dire che abbiamo lasciato prosperare la camorra. Anzi: abbiamo inventato un reato apposito, quello di ostacolo all’installazione di discariche. Se questo non è combattere la camorra…

Per Romano, poi, il dialogo è «un’espressione che ricorre frequentemente nel linguaggio politico italiano e che significa ormai patteggiamento e compromesso. Ci piacerebbe che venisse sostituita, in questo caso, con la parola informazione».

Traducendo: abbiamo vinto, we’ve got the power, e buttiamo giù come birilli tutti quelli che compongono il «fronte del no» della cui esistenza abbiamo già acclarato l’illegittimità; e ringraziate il Sire che, almeno, un po’ di informazione ve la dà ancora.

Come al solito, almeno un po’ è d’aiuto D’Avanzo (che però sembra ugualmente avallare, sia pure con qualche complessità intellettuale che gli fa onore, l’esistenza della biasimevolissima e monocolore categoria del «fronte del no»): «Tra lo Stato e quel quartiere, non c’è più alcuna forma di conciliazione. C’è soltanto il deserto degli sconfitti; lo sbaraglio di ogni mediazione politica, sociale, istituzionale».

E comunque.
Io vorrei che qualcuno mi dicesse perché dire no è uno scandalo.
Perché dire no a qualcosa a cui si è contrari è uno sconcio.
Mi sembra che il vero obiettivo di tutto questo sia la neutralizzazione di ogni possibile pensiero alternativo, la delegittimazione dell’avversario, la sua riduzione al silenzio, alla rassegnazione, all’invisibilità, al timore di esprimere il proprio pensiero.

C’è solo il sì.
C’è solo il sì a quello che ho deciso io-potere.
Perché io ho vinto, fìccatelo bene in testa.
E niente e nessuno hanno il diritto di esistere fino quando non lo concedo io, e per il tempo che a me piace.

È come con i manicomi.
Se una persona protestava – magari con disperazione rumorosa e appena maleducata – contro il suo internamento, la protesta era la prova che quella persona era pazza e meritava il manicomio.
E se una persona si rassegnava velocemente al suo atroce destino di internamento, beh, allora quella rassegnazione era la prova del fatto che il posto giusto per quella persona era il manicomio.

Mi viene in mente l’Adelchi di Manzoni: «Godi che re non sei; godi che chiusa all’oprar t’è ogni via: loco a gentile, ad innocente opra non v’è».
Che tristezza, però.

p.s. C’è un bel libro, piccolo e veloce ma proprio bello, che si intitola «Dove sono le ragioni del sì?»; è il risultato del lavoro che Antonio Calafati, professore all’Università Politecnica delle Marche, ha fatto con i suoi studenti di Analisi delle politiche pubbliche. Racconta del modo in cui tre grandi quotidiani si sono occupati del tema Tav in Val di Susa. Lo consiglio. È un’analisi spietata, vera e incisiva del rapporto fra la pretesa illegittimità del «no» e la ideologica e non argomentata necessità del «sì». Dove «no» e «sì» diventano categorie morali; anzi: moralistiche.