mio figlio, una donna e io: una piccola storia vera

Qualche mese fa, una mattina abbastanza presto, ho sentito venire dalla strada una voce alterata di donna.
Aveva un accento meridionale, stava criticando con parole pesanti un’altra donna, ma lo faceva rivolgendosi a un uomo, al quale rimproverava con dolorosa durezza di averla tradita.
Nessuna voce maschile, però, replicava a quelle accuse.
Forse è un uomo remissivo, ho pensato girandomi dall’altra parte sotto le coperte.
Forse si sente in colpa e non sa dar torto a quella donna che ora lo attacca. Forse pensa di meritare quel trattamento.

Per un po’ di tempo quella voce non l’ho sentita più, ma un giorno è tornata.
A ripetere le stesse accuse allo stesso uomo e alla stessa donna, che continuava a colpire con infinite e creative varianti di un unico insulto, ingenuo e triviale.

Poi, un giorno, l’ho vista.

È una donna con gli occhi azzurri e i capelli biondo-castani, di un’età difficile da dire, perché il disamore di sé aggiunge anni di usura a qualsiasi volto.
È una donna che parla da sola per strada, a voce alta, sempre ripetendo la stessa scena: quella in cui lei, finalmente, riesce a dire tutto il suo disprezzo all’uomo che aveva amato e invece l’ha tradita.
Questa donna fuma, e credo che viva per strada. Ha una sua idea di decoro, mi sembra, e su di lei l’abiezione non esercita alcun tipo di fascino: non gode in nessun modo a schiaffarti in faccia la sua diversità da te, non gliene frega niente di scandalizzarti.
È arrabbiata, ma sulla sua condizione di donna tradita da un uomo e rimasta senza casa e senza soldi non ha costruito nessuna identità rivendicativa, non s’è inventata nessuna ferocia.

Un giorno mi ha avvicinata sussurrando «ho bisogno di un panino».
«Non ho un panino», le ho detto. «Posso darti dei soldi».
«Va bene», ha detto lei muovendo appena la testa in su e in giù e guardandomi negli occhi senza paura e senza strafottenza, come cercando – ma senza alcuna autentica concentrazione – di capire chi ero.
Ha aperto la mano.
Io ci ho messo qualche moneta.
E poi se n’è andata senza dire niente, come se tutto ciò che contava fosse già successo e non ci fosse più niente da dire.

E poi, un altro giorno, tornando verso casa insieme a mio figlio appena uscito da scuola, l’ho ritrovata.
«Ho bisogno di un caffè», mi ha detto.
Le ho dato un paio di euro.
Mio figlio mi ha chiesto: «Mamma, perché le hai dato dei soldi?».
Io gli ho risposto: «Perché me li ha chiesti».

Ogni volta che mi vede mi si avvicina, e mi dice di che cosa ha bisogno.
La settimana scorsa, mentre camminavo al fianco di mio figlio, lei mi ha fermato per dirmi che aveva bisogno di mangiare.
Le ho dato qualche soldo, e poi le ho detto questo: «Io non penso di poterti dare dei soldi tutti i giorni, sai?».
Mi ha guardato senza rabbia e senza angoscia, soprappensiero.
«È vero», mi ha detto, ed è rimasta zitta, guardando l’asfalto.
Mio figlio mi stringeva la mano senza capire bene cosa stava succedendo.
«Però allora puoi darmi un panino. Un panino puoi portarmelo, no?», mi ha chiesto.
«Sì», le ho detto. «Io potrei farti un panino a casa e portartelo. Però come faccio a sapere esattamente quando ti incontro? Non posso girare sempre con un panino in borsa».
Mio figlio mi guardava dal piano terra dove si trovano sempre gli occhi dei i bambini.
La donna è rimasta zitta per qualche istante guardando basso, e poi mi ha detto: «Hai ragione. È vero. Non puoi saperlo».
E se n’è andata.

Mio figlio sta ancora cercando di capire chi, tra me e lei, era la «cattiva».
Credo che lo debba decidere lui.
Ma il fatto che non sappia decidersi mi piace.
Perché non è vero che otto anni sono troppo pochi per capire che la vita è complessa.
Soprattutto se tua madre ti tiene per mano.