il dovere di morire sani, con un vitino da vespa

Ora. A parte che se io fossi Carlà non sarei troppo contenta di sentirmi dire da uno come George Cocker-Stanco Bush che sono una donna in gamba (ma io non sono Carlà, e ci son momenti che perfino questo mi basta), c’è da dire che oggi sono invece contenta di non essere giapponese ma son scontenta del fatto che vivo in Italia, e cioè in un Paese in cui qualunque parola del papa – anche la più ovvia, banale, piatta, inutile, inoffensiva, tiepida, sciocca, prevedibile, inevitabile, scontata – diventa una notizia.

Parto dal Giappone: sono contenta di non esser dei loro, oggi, un po’ per il terremoto (e questa è una cosa triste e seria), e un po’ anche per quella ca**** cosmica della legge del giro-vita.
E prima che a qualcuno venga quest’idea, questa legge non mi pare una ca**** per fatto personale, però, perché sono – va detto – abbondantissimamente al di sotto dei novanta centimetri che sono considerati il massimo (in negativo) per una donna (un uomo si dovrebbe fermare un po’ prima; a tipo 85 centimetri, chissà perché).

È che questa cosa – punizioni per le aziende e le amministrazioni pubbliche che non saranno riuscite a ottenere il dimagrimento dei cittadini (pazienti?) – mette insieme alcuni dei pregiudizi ideologici più idioti e odiosi, in primis l’idea che sia obbligatorio morire in salute.

Che magri si vive più a lungo.
Che chi è ciccione è una spesa per lo Stato, e quindi va fatto dimagrire con un sistema economicista di incentivi e disincentivi.
Che «ciccione» è una specie di sinonimo indiretto (guarda cosa m’invento) di «immorale», così come d’altra parte «fumatore».
Che l’obesità (l’ipertensione, il diabete, o qualunque altra cosa non contagiosa) sia descrivibile in termini epidemiologici.
Che le cure non è che ti spettano di diritto, ma te le devi meritare rigando dritto.
Che le acquisizioni provvisorie e perfettibili – e nessuno se lo ricorda mai – della medicina siano sempre Verbo: io, per esempio, sono sicura che verrà il giorno in cui qualche autorevolissimo studio sosterrà che il fumo di sigaretta fa bene a qualcosa che non so; e quel giorno rimpiangerò la sigaretta che non ho fumato stasera dopo la grigliata di carne.
Che parlare di «costi» sempre e comunque, in modo indiscriminato, abbia un senso.
Che la vita si possa ridurre a regime binario – sì-no, on-off, bene-male – e noi, ovviamente, siamo sempre dalla parte del primo termine.

Il Giappone l’ho detto.
Mi resta il papa.
Sant’uomo: ai giovani del sud manda a dire che non devono «lasciarsi sedurre dai facili guadagni» né farsi «soffocare dalla disoccupazione».
Benedetto uomo.
Ma chi glieli scrive, i discorsi?

P.s. sul papa. Oggi, 15 giugno, ho scoperto chi scrive i discorsi al papa. «La compassione cristiana non ha niente a che vedere col pietismo e l’assistenzialismo», ha detto a Brindisi. Che legame c’è – concettualmente – fra «pietismo», sentimento individuale sul quale il suffisso -ismo proietta un alone dispregiativo, e «assistenzialismo», termine ideologicamente contrassegnato col quale si intende criticamente riferirsi a un complesso di politiche sociali?
Penso che non ce ne sia nessuno. Neanche a volerlo cercare.
È solo una frase buttata lì per contenere una parola d’ordine, per far capire da che parte si sta.
E dunque, ho capito chi scrive i discorsi del papa.
Lo stesso ghost writer di Calderoli.