mario lodi, i bambini, il potere e la fiducia

Ieri sono stata al matrimonio del mio amico Carlo, l’amico di cui dicevo in questo post, con la deliziosissima Lisa.
A fare da ufficiale di stato civile era Mario Lodi.
Si possono dire molte cose di lui, come per esempio che ha rivoluzionato la pedagogia, ma penso di non fargli un torto se dico semplicemente che è un maestro elementare pieno di idee e di entusiasmo.

Di Lodi e dei suoi scolari è anche quel fantastico libretto che si intitola Cipì, che ho letto la sera a mio figlio quand’era in prima elementare, credo. Racconta la storia di un passerotto disobbediente e intraprendente che si confronta con la vita e l’entusiasmo della libertà, ma anche con il dolore e con la morte, quella di Margherì.
Lodi è responsabile di un certo numero di «aggrappamenti» notturni di mio figlio a me, e mi sa che – al di là dell’inevitabile irritazione momentanea che provai per avere una morbida piovretta attaccata al collo nel lettone – gli devo essere grata anche per questo.

A tavola, si parlava con altri invitati – curiosamente, fra loro c’erano tre maestri – di quanto sia difficile mantenere viva la speranza che sia possibile cambiare le cose intorno quando intorno le cose congiurano per togliercela. Quanto sia difficile resistere all’istinto della chiusura e della fuga. E che senso possa mai avere crederci ancora.
A me sembra che Lodi giudicasse estremamente stupefacente che gente della mia età – lui è nato nel 1922 – possa avere perso ogni fiducia nella propria capacità di interferire con la realtà; diceva che per modificare il proprio ambiente ci vuole solo passione.
Forse ha ragione: questa sfiducia è stupefacente, e tanto più sorprendente sembra a chi come lui abbia vissuto non solo il fascismo ma anche e soprattutto la sconfitta politica del fascismo, impresa che dev’essere sembrata galvanizzante anche al ragazzo e alla ragazza meno provvisti di autostima.

È da ieri che ci sto pensando, combattuta fra il dargli ragione in toto – e recuperare da qualche mio luogo interno la mia antica convinzione ai limiti del titanismo, quella secondo la quale per cambiare un luogo basta una persona – e l’ascolto della mia sensazione nitida e inequivocabile di sconfitta. Non che me ne senta paralizzata; la sensazione mi ha paralizzata quando ho cominciato a farci i conti, quando ho attraversato quella strettoia.
Adesso sono addolorata, certamente; a volte sono anche molto arrabbiata, perfino furiosa contro chi mi ha chiuso la bocca e ne è felice (è questa letizia che mi fa male, non la violenza ideologica del potere che mi ha chiuso la bocca).

Però mi è molto chiaro che prendere atto della sconfitta è l’unico modo che possiedo – al momento – per liberare energie da utilizzare in altre cose, da impiegare nell’abbandono a nuove gioie, da impegnare nelle belle relazioni che la vita riesce sempre a regalare.

Ho una natura interventista. Questa sorta di ritirata verso lidi a-politici mi rasserena e mi entusiasma ma non è – come dire – la mia prima scelta.
Ma alla fiducia di Lodi ho solo da opporre una considerazione: che una cosa è misurarsi con l’aspetto relazionale del vivere in una classe con bambini che in se stessi giustificano la fiducia nelle relazioni; e altra cosa è misurarsi in solitudine con la multiformità del potere.
Quando, per esempio, mi è stato chiaro che l’approdo più alto del mio lavoro – per chiunque – poteva solo essere la cooptazione all’interno del circolo di chi è autorizzato (e deputato) a creare una realtà alternativa, mi è stato anche chiaro che a me questo non interessa minimamente.
E quando il mio disinteresse per questo ha allargato la faglia fra me e il potere, al potere questa distanza non è piaciuta affatto.
Mi sono resa conto che quando si toglie il proprio piede dal tacco di qualcuno che lo sta pestando, si possono scatenare reazioni molto forti, perché la sottrazione di sé all’insulto viene paradossalmente vissuta come un atto ostile e aggressivo. Un po’ perché si toglie un piacere al «pestatore», forse. Un po’ perché si costringe il «pestatore» a cercare un altro piede da pestare, e questo è fatica. E un po’ anche perché togliere il piede ricorda al «pestatore» che lui sa essere «cattivo» e che il pestato se n’è reso conto: e questo non piace a nessuno.

Comunque, adesso sono al «periodo marrone» (non a caso, mi vesto spesso di questo colore che per trent’anni ho detestato; e sono peraltro d’accordo con chi, leggendo questa parentetica, sta pensando “e a me che me ne frega?”). O meglio: alla fase manzoniana del «godi che re non sei».
Se lo dice Adelchi, vuol dire che qualcun altro, prima di me, s’è sentito «all’oprar chiusa ogni via»…

Comunque, credo che andrò a farmi un giro alla Casa delle arti e del gioco di Lodi. Sì.
Ci andrò per questo racconto che Lodi ha fatto a tavola: «Ero un giovanissimo maestro», ha detto, «e un giorno, durante la ricreazione, mi sono affacciato alla finestra per guardare i bambini. Li ho visti correre e gridare pieni di felicità, e ho confrontato quella loro felicità con la passività che avevano in classe; con il fatto che dimenticavano di fare i compiti, per esempio, o che erano spesso distratti. E allora mi sono detto che dovevo fare qualcosa per fare in modo che i bambini fossero felici anche in classe».