ma nessuno sente bussare il mostro?

Mi hanno dato entrambi pochissima consolazione, ma valgono entrambi la pena: voglio perciò suggerire la lettura di due pezzi che mi hanno colpito moltissimo.

Uno è uscito il 12 luglio sul Manifesto sotto il titolo «Gli ebrei ieri, i rom oggi» e con la firma di Alberto Burgio (grazie a Manu per avermelo segnalato).

L’altro è uscito oggi sul Guardian.co.uk; l’ha scritto David Edgar, commediografo e presidente dell’Associazione inglese degli scrittori, ed è titolato così: «L’accavallarsi delle leggi antiterrorismo limita la libertà di parola e devasta vite innocenti».

I due articoli sono molto diversi, se non altro perché trattano di argomenti assai diversi, e si riferiscono a Paesi diversi.
Ma hanno un contenuto di base in comune: la capacità di capire che al di là delle affermazioni di comodo, i comportamenti (e gli atteggiamenti: a me viene in mente la sottovalutazione) – personali, collettivi, politici o istituzionali – implicano conseguenze socialmente e politicamente rilevanti sulle quali occorre tenere gli occhi aperti ed esercitare un alto grado di vigilanza.
Se ancora serve a qualcosa.

Burgio, che insegna all’università di Bologna, smaschera la favola dell’«italiani brava gente», che ha condotto il nostro Paese ad autoassolversi a dispetto delle sue leggi razziali, e ne esamina alcune conseguenze.
Cito solo una frase, ma il pezzo vale la pena di esser letto tutto.

«Se tenessimo presente questo quadro rinunciando alla favola della nostra refrattarietà al razzismo, avremmo qualche strumento in più per capire quanto avviene ai nostri giorni e, forse, per correre ai ripari. Il nostro disorientamento nasce dalla rimozione, che a sua volta innesca un contrappasso: il passato persiste tanto più tenace (e genera coazioni a ripetere) a misura della sua mancata elaborazione. Pesa, sullo sfondo, l’incompiuta defascistizzazione, la scelta di non fare una nostra Norimberga e di tenere ben sigillati gli “armadi della vergogna”. Per cui l’omaggio alle vittime della Shoah dev’essere prontamente compensato da un “ricordo” delle foibe costruito sulla negazione delle atrocità commesse dai fascisti sul confine orientale e in Jugoslavia».

L’altro pezzo, quello inglese, racconta alcune storie preoccupanti sulla libertà dell’arte e della ricerca: «Uno studente scarica un documento di al-Qaida da un sito web del governo americano, e viene tenuto agli arresti per sei giorni. Una commessa scrive poesie che esaminano lo stato d’animo di chi taglia le teste alle persone, e va sotto processo per terrorismo. Un compositore d’opera è accusato di propaganda terroristica» e, attaccato da un giornale, finisce in bancarotta perché i giudici danno ragione a quel giornale che lui aveva citato in tribunale per difendersi da quell’atto d’accusa via stampa.

Citando ad esempio un precedente legislativo britannico relativo al tema dell’omosessualità, e sostenendo dunque che non bastano buon senso o (ipotetiche e da verificare) buone intenzioni a evitare ricadute anche pesanti, Edgar scrive che

«nessuno – certo – venne processato dalle autorità locali a norma della legge che, voluta dal governo conservatore, istituiva il reato di promozione dell’omosessualità. Ma questa norma irriflessa ha comunque ottenuto risultati: ha contribuito all’aumento dell’omofobia, ha creato un clima nel quale gli insegnanti erano in costante tensione nello sforzo di combatterla, e ha fatto in modo che le autorità locali abbiano per esempio evitato di consentire ai teatri di portare nelle scuole spettacoli con temi o personaggi gay».

Al di là delle singole questioni specifiche, io mi sono sempre fatta una domanda, alla quale ho trovato risposte mie e parziali, forse anche insoddisfacenti: com’è stato possibile che gli ebrei non si siano resi conto momento per momento di quello che stava preparandosi per loro in Germania sotto il nazismo?

Io penso che molti ebrei, partecipando da insider alla società tedesca, semplicemente non potessero credere che la loro posizione venisse minacciata.
Credo che chiunque di noi tenda – oltre che a rimuovere l’indicibile – anche a considerare se stesso, se proprio va male, come l’ultimo gradino della difendibilità.
È come se fossimo portati a pensare che, se c’è qualcuno che si prepara ad essere perseguitato, quel qualcuno sarà certamente colui che percepiamo uno scalino immediatamente al di sotto di quello dove teniamo socialmente i nostri piedi. Sicuramente non saremo noi.

Immagino che questa cosa si possa chiamare a buon diritto «rimozione».
Ma la domanda che mi assilla è un’altra.
Qual è il momento a partire dal quale ha senso dare ascolto al segnale d’allarme?
Ma anche: perché chiunque si manifesti preoccupato viene ridicolizzato (o se va bene consolato) da schiere di persone che conservano la placida serenità di chi sente inattaccabile il suo privilegio di insider?