una ragazza può morire di fretta e sfiducia

Su Vibrissebollettino.it – fatta appena invecchiare da un botta e risposta su Eluana e il testamento biologico – è in corso una discussione avviata da Giulio Mozzi, il «babbo» del sito, sull’omicidio di Federica Squarise, avvenuto a Lloret de Mar.

Nel post che ha dato il la ai commenti, Giulio sostiene – se non ho capito male, e spero di no – che la responsabilità civile o anche morale dell’omicidio di Federica possa essere ricondotta ai maschi che cercano un «posto della perdizione», a chi – educandoli – non è riuscito a dar loro «niente di meglio che il desiderio di alcool e sesso», e anche agli «imprenditori televisivi, Stato compreso».

Credo che Mozzi abbia ragione. Ma io, qui, vorrei parlare del versante femminile.
Una delle cose di cui sono più profondamente convinta è che la relazione con la propria sessualità non possa che nascere dall’esperienza. Ho detto «esperienza» non per caso, però; intendendo una cosa molto diversa dall’esercizio ripetuto, dal cumulo numerico di sperimentazioni, dalle «esperienze» singolarmente prese.

Sono persuasa che fino a quando non si sia aperta una dialettica interiore con la propria femminilità (e con la propria mascolinità, se si è uomini; ma di questo non ho conoscenza e dunque non posso dire), le «esperienze» sessuali abbiano un sapore che viene determinato molto più dalla temperie sociale che dal ritmo dei propri desideri.

Mi spiego.
Se il mondo in cui vivo – amici, tv, strade, discoteche, spiagge… – esalta a parole e nei fatti la retorica del sesso atletico esercitato con compagni casuali e indifferenziati, al di fuori di qualunque relazione umana che non sia quella della pattuizione delle prestazioni; se la misura del mio valore di femmina viene parametrata sul numero dei miei partner, cosa che indirettamente testimonia della mia appetibilità, e ancor più indirettamente dello stato della mia perfezione fisica, e ancor più indirettamente – e in ultima analisi – del mio diritto alla vita e alla partecipazione al gruppo; beh, se accade tutto questo, per me è infinitamente più semplice infilarmi in questa corrente piuttosto che domandarmi che cosa io voglio davvero, o chiedermi se quel ragazzo o quell’uomo mi interessano, se quel che faccio mi piace veramente, se ne traggo autentico piacere.

Se devo aderire a un modello adottando un comportamento rituale che celebra il mio ingresso nel gruppo – proprio allo stesso modo dei riti tribali – come posso, io, avere il tempo, l’energia, o il rispetto di me che sono necessari a chiedermi che cosa mi sta effettivamente dicendo il mio corpo?
Per dirla in altri termini, non sono affatto sicura che alle ragazze che prendono e vanno a Rimini, a Riccione, in Costa Brava o anche dietro l’angolo, o dovunque, per incontrare ragazzi casuali con cui fare l’amore (qualunque cosa significhi l’espressione) e aggiungere una crocetta all’albo d’oro, piaccia veramente fare sesso in questo modo.

Credo che fino a un certo punto della vita tutto ciò che la nostra sessualità mette in scena è la nostra personale versione della guerra primigenia di sopraffazione fra maschi e femmine.
La seduttività che mettiamo in gioco è una sorta di caricatura di femminilità, spesso appesantita da quella specie di parossismo rappresentativo di sé utilizzato in qualche situazione da quei gay che amano le movenze iper-femminili.

Ci sono ragazzine che dietro a un ciuffo estenuato scoccano occhiate tecnicamente dardeggianti ma sensualmente completamente vuote, intendo; e si arrotolano i capelli con tanto languore da far credere di possedere in quelle dita tutte le arti della Kamala di «Siddharta»; e procedono ondeggiando come se le loro curve stessero parlando con gli uomini per convincerli a seguirle nell’abisso del paradiso.

Ma tutto questo è una cosa che secondo me non ha niente a che vedere con l’autentica scoperta della propria seduttività, che si misura su terreni radicalmente diversi da quelli della propria supposta perfezione corporale o della competenza tecnica maturata nel settore per anzianità di frequentazione; che riesce a riconoscere l’esistenza (innanzitutto), la dirompenza e la portata potenzialmente «rivoluzionaria» del proprio desiderio; che ammutolisce di fronte al mistero della dimensione totalizzante della carnalità.

Quando ero una ragazzina, non sapevo assolutamente niente di tutto questo, e naturalmente non avevo le parole per dirlo.
Però – confusamente, in modo spaventato e silenziosissimo – sentivo che c’era qualcosa da capire, qualcosa da imparare. Sapevo dell’esistenza di un qualche mistero che a un certo punto della mia vita sarei stata in grado di svelare a me stessa.
Sapevo che c’era – appunto – un silenzio da tenere; che bisognava avere pazienza; che quella confusione interna sarebbe approdata da qualche parte; che non dovevo avere fretta, perché quel che non potevo capire allora l’avrei capito dopo.

A volte mi sembrava impossibile, ma la fiducia non mi è mai veramente venuta meno.
E oltre al fatto che sono cresciuta con un forte senso della paura – indistintamente consapevole del fatto che la paura è una luce che si accende per conservarti in vita, cosa che mi impediva di fidarmi delle persone che non conoscevo, per esempio – c’è che non avrei mai potuto accettare di accorciare i tempi della mia conoscenza graduale di quel mistero affidandomi a qualcuno o a qualcosa che mi promettevano una scorciatoia.

Avevo (irriflesse e animali) troppa paura del mondo e troppa fiducia in me, insomma, per accettare la misura della «produttività» sensuale (o sessuale) come parametro di inserimento nel mondo.
È questo che non capisco delle ragazze che, per dirla con Giulio Mozzi, vanno nel «posto della perdizione».
Chi, quando, e come le abbia convinte che non c’è tempo, che tutto va preso subito. Che a dieci anni si può andare al Prado assaporando fino in fondo il piacere di vedere Bosch.

P.s. E nemmeno capisco come possa una madre non percepire, per quanto indistintamente e con dolore, quel che si muove nel cuore di una figlia inquieta.
Non dico – è chiaro – che una madre porta la responsabilità di quel che succede alla figlia, mio dio.
O che una madre può, da sola, evitare simili tragedie (che esisteranno sempre perché sono sempre esistite, indipendentemente dalla capacità individuale di tenersi fuori dai pasticci).
Ma dico che il suo cuore di madre è certamente in grado di vedere il cuore di sua figlia, e di farsene carico.
A volte penso che con i figli bisogna parlare, farsi violenza e parlare, anche delle cose che ci mettono più in imbarazzo. Che bisogna avere il coraggio di dare anche con loro un nome ai sentimenti.

Non c’è niente, ovviamente, che garantisca che questo sia sufficiente ad attrezzare un figlio alla vita adulta, e nemmeno che basti a salvargli sempre la vita.
Ma per costruire una relazione che consideri un figlio come un essere umano con i suoi confini e la sua individualità io non vedo alternativa che aiutarlo a far uscire i suoi sentimenti.