caro diario (post che si può saltare a pie’ pari)

Caro diario.
Ti ho perso di vista da secoli, e in fondo non mi sei nemmeno mancato. Anche perché ho imparato piuttosto presto quanto sai essere pericoloso.
Dapprincipio, in copertina avevi le immaginette di principessine sotto l’ombrello, e un lucchetto minuscolo con una chiavetta piccolissima.
Poi sei diventato un’agenda normale.
Blu, di finta pelle.
Poi niente.

Caro diario, dicevo.
Mi trovo in un momento della vita in cui – così come da ragazzina, come se da allora a oggi non fossi stata in grado di metabolizzare fino in fondo le banali necessità dell’attitudine mondana – apprezzo sommamente il valore dell’intransigenza.
E mi succede spesso di non riuscire più neanche a pensare di discutere – allo scopo di convincerlo, per esempio; o di farmene convincere – con qualcuno con cui non condivido un’idea che, unilateralmente, giudico importante.

È ampiamente verosimile che questo comportamento – esaminato da qualche punto di vista che al momento non sono in grado di assumere – rappresenti un errore.
Sono però costretta a dire che se anche è un errore, vabbè, non m’importa.
Il radicalismo e l’intransigenza di «cervello» possono andare perfettamente d’accordo con una libertà emotiva – di pancia – mai sperimentata prima, che rende più facili rapporti «caldi», con buona temperatura sentimentale, anche con persone con cui non condivido idee né orizzonti ma magari solo qualche periferico modo di essere.
Ovviamente si tratta di relazioni sociali ben delimitate da perimetri chiari, e scaricate da aspettative risolutive; e per questo, forse, infinitamente più serene e benefiche.

A me sembrerebbe un passo avanti, ma riconosco che l’intransigenza è socialmente gestibile con qualche difficoltà.
Il fatto è che io non sono più in grado di sopportare quelli – per semplificare – col c*** al caldo, quelli che (per dire) si comportano come se non avessero mai fatto – da piccoli – l’incubo di trovarsi nudi e senza difese in mezzo alla strada.
Quelli che attraversano il mondo come se la vita avesse conficcato le radici dei loro piedi esattamente nel buco che era stato pensato per loro, proprio per loro, fin dall’inizio dei tempi.

Ho smesso, in prima battuta, di subire la fascinazione seduttiva della quieta e lineare mansuetudine analitica di coloro che nella loro vita hanno da fare poco di più che giovarsi dei privilegi accumulati dai loro avi anche recenti se non addirittura posticci (esistono, esistono…).
Conseguentemente, ho completamente smarrito – forse momentaneamente, ma non saprei – la capacità di tollerare questo genere di persone, generalmente molto abili nei distinguo, nei movimenti misurati, nei toni bassi; molto beige-Armani, per capirci (o anche molto verde-acido-Lapo-Elkann, ma questa è la variante sociologica «mio dio come sono misuratamente estroso»).

Mi irrita molto quella tranquillità.
Quell’arietta da «io non ritengo corretto incazzarmi, perciò sorrido – con l’espressività di un’emiparesi- perché avere il broncio, o un lampo negli occhi, è troppo poco chic».
In realtà, secondo me – ma posso benissimo sbagliare – non è tranquillità.
È solo assenza di motivazione.
No, meglio: assenza del bisogno di mordere la vita.

Eppure, questi tipi sono pieni di imitatori; per esempio, alcuni rurali di seconda generazione che inseguono il sogno di un impossibile travestimento della loro rinnegata identità agreste. Che peccato non saper andare fieri della strada che si è fatta senza pretendere di essere diventati un’altra cosa.