it’s obama!


Barack Obama è il presidente degli Stati Uniti.
Ho visto poco più che i titoli dei giornali online (niente delle eventuali reazioni italiane, che sono certa mi metterebbero di malumore), e un po’ di Cnn in streaming.
Ma come cavolo si apparecchiano, le anchorwoman? Hanno certe giacchette blu elettrico piene di bottoni, di stoffe così rigide che stanno in piedi da sole, benedette ragazze. Certi capelli bloccati da etti di lacca. Certe improbabili biondezze. Certi sorrisi rumorosi, da sit-com.

Non ho nessun commento intelligente; solo poche opinioni irriflesse, senza nessuna prospettiva politica; senza distinguo, senza contesto.
Gioco a fare la Maria Laura Rodotà dei poveri, insomma.
Molto dei poveri.

Prima di tutto, sono contenta che la mia amica Linda – in America da un bel po’ di anni – abbia una ragione in più, probabilmente quella decisiva, per avviare finalmente le pratiche di una cittadinanza che all’improvviso ora diventa ai suoi occhi una prospettiva sensata. Se una donna può credere che questo elemento sia decisivo per dare alla propria vita un assetto che mette in discussione l’idea dello sradicamento, beh, vuol dire che quello che è successo stanotte è veramente di categoria superiore, da catalogare fra gli eventi storici.

E poi, vado giù così senza vergogna.
Barack è un mito.
Ha vinto le presidenziali, e parla alla folla con la quiete di chi ha vinto una lotteria natalizia in parrocchia, eppure dicendo frasi che chiariscono perfettamente la sua comprensione dell’enormità del suo risultato.

Mi è piaciuto che McCain abbia rapidamente ammesso la sconfitta, lodando l’uomo che è stato il suo avversario – ha detto – «e ora sarà il mio presidente» e commentando che «questa campagna elettorale è stata e rimarrà il grande onore» della sua vita.
Mi è anche piaciuto che Sarah Palin abbia pianto. I pitbull non piangono, e questo fa finalmente giustizia del fatto che lei fosse un cane.
Per la prima volta stanotte, vedendolo sulla Cnn, ho realizzato che McCain ha le braccia tremendamente corte, e che le muove in modo ridicolo, come se fossero governate da meccanismi male oliati.
Forse è la conseguenza di qualcosa di vietnamita, chissà.

Mi piace che un nero – un marroncino – sarà alla casa Bianca. Questo mi piace un casino. Non mi nascondo che Obama è un marroncino particolare, ma intanto è marroncino, e questo vuol dire qualcosa.
Mi sarebbe piaciuta di più Hillary, però si vede che gli Stati Uniti fanno meno fatica ad accettare un uomo marroncino che una donna bianca.
E anche questo vorrà dire qualcosa, penso, anche se ho un po’ troppo sonno per capire esattamente cosa. Confido in qualche folgorazione.

Mi piacciono la grazia e l’eleganza del portamento di Obama, un uomo esile ma solido. La moglie – va detto – è piuttosto bruttina; ma vale trenta o quaranta Cindy McCain, con quel suo corpicino rinsecchito e quella faccettina tirata e tesa.
Però, in una delle foto che circolavano ieri nei circuiti delle agenzie internazionali, tiene una mano sui capelli del marito per evitare – credo – che il vento li sollevasse, magari offrendo il destro a foto in cui John poteva apparire ridicolo. Mi è sembrato un gesto pieno di tenerezza. Mi ha ricordato la terribile immagine di Jacqueline Bouvier che si slancia all’indietro, mossa da un istinto irragionevole di rimettere a posto le cose, nell’auto in cui a Dallas Jfk è stato appena colpito, come cercando di impedire alla calotta cranica del marito di volare via.

Non mi piace che adesso tutti – da Forza Nuova a Cicchitto – diranno «wow, adoro Obama».
Non mi piace che Veltroni possa anche solo pensare che anche qui si possa al momento dire «yes, we can», perché è piuttosto chiaro che qui e ora «no, we definitely cannot».

Mi piace che anch’io – che i tempi di John Fitzgerald Kennedy me li sono persi, il ’68 non l’ho visto e nel ’77 mi occupavo di bambole – posso avere adesso qualcosa di epico americano da raccontare ai miei nipotini. Anche la Sgaggio ha la sua porzioncina di Storia da raccontare. Mio figlio era molto contento, stamattina, quando ha saputo che aveva vinto Obama. Lui non sa granché della schiavitù negli Usa; sa del bus e di Rosa Parks e questo gli è bastato. Penso che sia un tipo intelligente. Anche per lui questo è qualcosa da ricordare.

Non mi piace – è un po’ italiano – che il senatore repubblicano dell’Alaska Ted Stevens* sia stato rieletto nonostante il fatto di essere stato recentemente riconosciuto colpevole di corruzione. La situazione ha quel non so che di familiare, di conosciuto.

Mi è piaciuto il modo in cui, in una foto Ap che ho visto al lavoro, Obama ha preso in braccio una delle sue figlie per aiutarla a scendere dall’auto. Era un gesto liscio, naturale, allegro. Non che io fatichi a immaginare un repubblicano che prende in braccio la figlia; questo no. Però mi sembrava che Obama lo facesse senza caricare nessuno dei gesti della consapevolezza che qualcuno lo stava certamente riprendendo.

Non mi piace che Obama abbia preso pochissimi voti nel sud degli Stati Uniti (sulla Cnn hanno un enorme touch screen sul quale si scrive con le dita: spaziale, utilissimo): questo mi spaventa.

Non mi piace la possibilità che i razzisti, trovandosi un marroncino al potere, possano credere di avere un argomento in più per combattere la loro orribile battaglia.

Infine, l’angolo della retorica: dice Obama che in America niente è impossibile.
Porca miseria: stavolta mi sa che ha ragione.
È come se in questo momento io riuscissi a comprendere per quale motivo negli anni Sessanta l’America ha rappresentato il faro della prima generazione post-bellica. L’energia, la capacità di cambiare, le opportunità.

Mi dispiace che la nonna bianca di Obama non abbia potuto vederlo, e che neanche la madre abbia potuto farlo.

ps: la foto arriva dalla home page del Corriere.it; la vignetta, invece, viene da qui. Grazie a Piero per avermela segnalata.

* Aggiornamento del 19 novembre: no, Ted Stevens non è stato affatto rieletto. L’Alaska ha votato un senatore democratico. Il che, direi, è un successo della Palin, oltre che di Stevens.