maestro califano, misteri universitari

cali_paloNon ho niente contro Franco Califano, sulla cui «tipicità» antropologica una mia geniale compagna d’università aveva coniato il neologismo «un califano» (plurale: «più califani», ovvero «squadriglia di rudi tamarri che tra un rutto e una grattata di palle incontrano clamorosi successi in alcune fasce di pubblico femminile»).

Però se lui può andare a dire all’università – invitato da quelli dell’ex Fuan, per capirci gli ex Msi – che la cellulite fa sesso, perché cavolo all’università non può andare gente come Morucci, o Curcio, o Fioravanti, che di cose da raccontare ne hanno una bella quantità?

Ecco alcune delle parole dell’introduzione (trattandosi di Califano, absit iniuria verbis) del preside della facoltà di giurisprudenza Paolo Benvenuti.
«È davvero con grande piacere che la ospitiamo qui, maestro, per quest’occasione un po’ diversa. Ci piace sentir raccontare la società attraverso le parole. I suoi testi sono poetici, lei ha contribuito alla cultura del Paese.
La sua è una di quelle figure che rimangono nella nostra vita».

Grazie a testi poetici come questi, suppongo.

Si fida il tuo signore ma un giorno scoprirà che nel suo letto muore
un’altra fedeltà-a-a
noi ci stringiamo più forte e poi più piano la passione ci godiamo alla faccia del tuo uomo.

(«Fedeltà-a-a» è una cifra stilistica molto nuova).
O anche questo:

De professione faccio l’amatore. Al mio distributore de passione, sto’ co’ la pompa ‘n mano pe’ riempire er serbatoio a le femmine ‘n calore.
Eccome quà, sempre a disposizione, so’ molto conosciuto ner quartiere, soddisfo tutte, senza distinzione, so’ bono, un missionario der piacere.

Ma io mi domando: non ci si potrebbe limitare a considerare un fenomeno di costume come un fenomeno di costume (o al limite come un fenomeno tout-court, se proprio), invece di laurearlo poeta, maestro, o sire?